(di Timoteo Tommasini – questo articolo è stato anche pubblicato numero di giugno/luglio 2005 del mensile “Popoli” ed è disponibile qui)
Il 14 luglio 2004, un gruppo eterogeneo di ventisei pellegrini ha lasciato l’Italia per partecipare ad un viaggio in Giappone organizzato dal missionario saveriano p. Luciano Mazzocchi e dal monaco Zen Jiso Forzani; il più giovane del gruppo ero io, Timoteo Tommasini, studente universitario al secondo anno della facoltà di lingue e culture straniere Cà Foscari di Venezia; come cristiano e studioso della lingua e della cultura giapponesi, dopo avere letto su Popoli il box che ne presentava il programma, ho partecipato a quello che è stato un pellegrinaggio spirituale centrato sull’incontro fra Cristianesimo e Buddhismo Zen.
Gli organizzatori sono personalmente coinvolti ed impegnati nella promozione di questo dialogo: p. Luciano è stato missionario per venti anni in Giappone, dove è avvenuto il suo graduale incontro con la spiritualità Zen, poi accolta nel proprio intimo; adesso vive vicino a Lodi (Milano), dove ha fondato la comunità Stella del Mattino, luogo in cui quotidianamente il dialogo si attua praticando entrambe le esperienze religiose: Eucaristia e Zazen. Jiso Forzani è un monaco Zen italiano, ordinato nel monastero di Antaiji, in Giappone, dove ha vissuto per una decina di anni; ha fondato la comunità Stella del Mattino insieme a p. Luciano e vive in Italia con la moglie e due figli.
Il pellegrinaggio si è svolto a grandi linee in due parti principali (che si sono intersecate cronologicamente l’una nell’altra): la prima all’insegna dell’incontro con i luoghi e le realtà del Buddhismo Zen Soto (soggiorni in monasteri, incontri con persone, testimonianze), la seconda dedicata invece alla conoscenza della presenza cristiana (parrocchie, comunità, personaggi…); il tutto arricchito dalle numerose visite turistiche in luoghi e città famose (i templi di Kamakura, Nara, Kyoto, i monumenti per la pace a Hiroshima e Nagasaki…).
Sarebbe troppo lungo scrivere tutto ciò che di interessante ci sarebbe da raccontare, così ho selezionato alcune fra le esperienze più significative.
* Eiheiji
La prima tappa importante è stata la visita ad Eiheiji, principale monastero dello Zen Soto giapponese, costruito nel XIII secolo dal fondatore della scuola, Eihei Doghen. E’ un luogo elegante e maestoso, immerso fra gli alberi secolari sulle montagne intorno a Fukui. In questo monastero i giovani monaci trascorrono gli ultimi anni della loro formazione (è una sorta di seminario), prima di ricevere l’ordinazione e, solitamente, ereditare dal padre la gestione del tempio (paragonabile, come dislocazione, alle nostre parrocchie).
L’educazione mira al raggiungimento della perfetta forma delle pratiche religiose e in ogni gesto della vita quotidiana, secondo un codice antico e complesso. I ritmi sono estremamente duri, e vanno rigidamente rispettati; in particolare i novizi sembrano non reggere facilmente tanta fatica: noi abbiamo visto due di loro, incaricati del nostro accompagnamento, addormentarsi profondamente durante il viaggio in pullman fino alla stazione.
Le ore di sonno sono scarsissime ed ogni operazione deve essere compiuta alla perfezione; ci è stato detto: “Il vuoto è la forma, la forma è il vuoto. La forma richiesta in ogni dettaglio della giornata ha la funzione di mantenere desta la presenza sul momento che si sta vivendo, e nella vita c’è il bello come il brutto.” Però l’impressione che rimane è che tutto ciò sia un po’ disumano, e lo si poteva leggere sui volti dei ragazzi; inoltre Jiso Forzani ci ha confermato l’estrema durezza della vita ad Eiheiji, dove ha vissuto per più di un anno lavorando in cucina (il lavoro del cuoco poi è ancora più impegnativo). Un’altra cosa che abbiamo potuto sperimentare, riguardo alla quale Jiso ha di nuovo confermato le nostre impressioni, è stata la breve durata delle sedute in Zazen.
* Zazen
Lo Zazen è la pratica principale dello Zen Soto; per Dogen lo Zazen è il cuore della pratica, esso racchiude in sé l’atteggiamento dell’uomo che vive in autentico cammino. La posizione da assumere è quella del Sutra del Loto, sedere portando i piedi sulle cosce con le gambe incrociate, in modo da potere mantenere l’immobilità del corpo il più a lungo possibile e rilassare i muscoli (la posizione del corpo è importante ma non fondamentale, si possono trovare compromessi per venire incontro alle proprie capacità, è essenziale però potere rimanere comodamente immobili per lungo tempo). Ci si siede di fronte ad un muro e non si chiudono gli occhi, si rimane desti di fronte alla propria condizione umana, di fronte al proprio limite. Non si tratta di meditare su qualcosa, e nemmeno di tendere a chissà quale dimensione mistica: i pensieri ovviamente affiorano nella mente, ma non si devono zittire immediatamente, e nemmeno seguirli dando loro corda: si tratta di assistere senza forzare nulla. Un pensiero nasce, si sviluppa, ma se non lo alimentiamo finirà con lo svanire, manifestando la fondamentale inconsistenza della sua natura. Sedere in Zazen permette alla nostra vera natura, il “sé” che è altro rispetto al nostro piccolo io, di respirare; insegna a non assumere come fondamento della nostra vita solamente i nostri pensieri (che spesso si traducono in desiderio ed egoismo), insegna che è liberante risvegliarsi alla propria natura autentica, molto più profonda e più bella, perché è originariamente relazionale. Zazen, secondo il maestro Sawaki Roshi, è “il sé che fa il sé in sé stesso”.
Questa pratica, se ripetuta con frequenza, allena alla pazienza, a persistere senza fuggire di fronte alle difficoltà, per vivere pienamente ogni momento della nostra esistenza ed essere sempre partecipi. Comunque non si pratica per uno scopo, lo Zazen non ha nessuno scopo se non la pratica stessa, esso non porta da nessuna parte, Zazen è tutt’uno con l’illuminazione,lla pazienza in autentico cammino alle nostre parrocchie) perché: “Eccolo adesso il momento favorevole, ora è il giorno della salvezza!” Paolo: 2Cor 6,2. Qui e adesso siamo chiamati a risvegliarci ad essa; ecco il significato del “sé che fa il sé in sé stesso”. Similmente il cristiano accoglie la presenza di Dio nel suo cuore, accetta di morire a “sé stesso” per fare la “Sua volontà”: è il “Sé” riscoperto dentro “sé stessi”, che supera “sé stessi”.
Questa “realtà della vita” si manifesta con semplicità nella semplicità, e si tratta innanzitutto di accoglierla, tutto il resto ha minore importanza. Per questo motivo la realtà di Eiheiji lascia un po’ perplessi: sacrificare il tempo dello Zazen a favore di ardue pratiche che portano allo sfinimento probabilmente rischia di fare perdere il senso della propria attività. Senz’altro è possibile sperimentare la natura autentica in qualsiasi momento e condizione, ma non si può provare pace se non si compensa l’agire con lo svuotamento del semplice sedersi in Zazen; una impostazione che sacrifica lo Zazen non favorisce l’amore per la pratica e non stimola il cammino di ritorno all’origine; si è tutti proiettati verso il raggiungimento e mantenimento della perfezione, quando è così elementare che la nostra natura non è infallibile.
* Sensibilità Giapponese
L’eccessivo formalismo di Eiheiji è senz’altro dovuto all’esasperazione di un particolare modo di sentire giapponese. Per motivi storici ed antropologici il popolo giapponese è molto pragmatico, in quanto si è sempre dovuto relazionare con un clima rigido, una natura soggetta a stravolgimenti come maremoti, monsoni e terremoti; va aggiunto che l’alimento principale (oltre al pesce) è sempre stato il riso, la cui coltivazione necessita una organizzazione comunitaria efficiente e precisa. Quindi è naturale che i giapponesi abbiano sviluppato un rigido pragmatismo, per fronteggiare una natura esigente.
Allo stesso tempo il loro spirito è estremamente delicato e sensibile al bello, in particolare riconosce proprio nella bellezza della natura, così potente e ricca, la presenza sublime del divino. Questo sentire l’assoluto presente in mezzo agli uomini ha nutrito una cultura che tende a valorizzare il qui e l’adesso, l’attenzione al particolare, in quanto anche nelle piccole cose si manifesta la pienezza della vita (nel Buddhismo Zen si enfatizza questa percezione, che diviene “via” di illuminazione).
Lo Shintoismo è il culto animistico ed autoctono del Giappone, venera gli spiriti della natura, l’Imperatore (discendente di Amaterasu, dea del sole), e pratica il culto dei morti. Proprio quest’ultima pratica è molto importante per i giapponesi, tanto che è stata introdotta anche nel Buddhismo; anzi, da secoli è proprio l’istituzione Buddista che in Giappone si occupa delle funzioni funebri, e tuttora i templi Buddisti si mantengono economicamente grazie a questa attività. In realtà la dottrina Zen non si prenderebbe particolare cura del post-mortem, preferisce educare l’uomo a vivere il momento presente, senza perdersi in sterili speculazioni trascendentali. C’è infatti il rischio che oggi il monaco trascorra gran parte del suo tempo a celebrare funerali, durante i quali è sufficiente che reciti per un’ora e mezza dei lunghi sutra incomprensibili: le persone comuni non comprendono il cinese o il giapponese classico delle preghiere (come noi il latino), ma si accontentano di avere svolto i riti necessari all’anima del defunto. Questo sostiene l’economia dei templi.
Noi abbiamo incontrato il maestro di Jiso, Watanabe Roshi, il quale durante il rito funebre non legge i testi in cinese, e conclude in un quarto d’ora. Indossa una veste da novizio ed utilizza il resto del tempo per parlare assieme ai parenti del defunto, discute della vita e della morte assieme a loro, sta loro vicino, confortandoli e facendoli riflettere.
* Antaiji
Watanabe Roshi è stato l’abate del tempio di formazione di Jiso; spostò la sede di Antaiji (“Tempio della Pace”) dal centro di Kyoto al centro di una foresta, sui monti vicino ad Hamasaka. Questa è stata la nostra seconda tappa, di modo che abbiamo avvertito con grande forza la diversità da Eiheiji: mentre Eiheiji è il regno della forma, ufficiale ed impeccabile, Antaiji è un luogo molto più umile e poco ortodosso. Watanabe si è sempre dissociato dalla rigidità dell’istituzione Buddhista, e ha spostato la sede di Antaiji anche per sottrarre il tempio dalle richieste di onoranze funebri. Egli inoltre sostiene che non c’è vero Zazen (o vera preghiera) senza il rapporto fisico con il lavoro, e così per evitare il rischio di un cammino troppo intellettuale, Antaiji si basa sull’auto-sostentamento materiale; non riceve grandi donazioni e non celebrando funerali si mantiene grazie alla coltivazione della terra, e ogni tipo di lavoro viene svolto dai monaci residenti. In questo modo la vita del tempio è molto più incarnata: “…perché Buddha va visto e ascoltato nella natura, non solo sull’altare. E’ il colore della realtà che ci circonda.”
La presenza di praticanti occidentali ad Antaiji è un altro esempio della particolarità del luogo (adesso l’abate è un tedesco), che in Giappone è probabilmente il tempio Zen più lontano dalla rigidità conservatrice che abbiamo conosciuto ad Eiheiji. Mentre nel monastero di Doghen la disciplina e l’etichetta, dopo 700 anni, quasi non sono cambiate, ad Antaiji la vita ruota attorno al lavoro ed allo Zazen; tutto si regola in armonia con le stagioni dell’anno e le necessità variabili di lavoro da svolgere, mentre la pratica dello Zazen è rispettata fedelmente, in sessioni di 2 ore per 2 volte al giorno. Due volta al mese inoltre si interrompono tutte le attività per 5 giorni di Sesshin, una specie di ritiro durante il quale si pratica Zazen dalla mattina alla sera. Con molta semplicità lo Zazen e il lavoro sono le attività principali, perché Buddha va incontrato nella propria vita quotidiana: “…per approfondire la fede bisogna togliere, non aggiungere cose ( come il desiderio di approfondire la propria fede), andare nel profondo di sé stessi, con semplicità.”
Questo atteggiamento di ricerca autentico ha portato Watanabe all’incontro con il Cristianesimo; il suo maestro gli disse una volta che se voleva studiare Doghen, doveva farlo di pari passo con la lettura della Bibbia: Watanabe un giorno disse a padre Luciano: “Da quando ho percepito che nel cristianesimo c’è verità, per me non esiste più cammino Zen se non aprendomi alla verità che è nel Cristianesimo.”.
* Eremo Soan (Eremo dell’Erba)
Se la sosta ad Antaiji ha segnato l’inizio del esperienza di condivisione e dialogo con il Buddhismo Zen, ritengo che il culmine di questo incontro sia stata la visita all’eremo di Padre Shigeto Oshida. Si tratta della terza ed ultima tappa di cui vorrei parlare, e credo che sia stata la più significativa per tutti i pellegrini che l’hanno vissuta.
Padre Oshida (scomparso nel novembre 2003) era un sacerdote domenicano di animo Buddhista: dopo un percorso di riflessione filosofica e pratica Zen, durante la guerra ha incontrato un cristiano tedesco, e attraverso le sue parole è giunto con grande semplicità alla fede: “Come vidi quell’uomo cristiano, io già credevo. Non sapevo ancora i dogmi; ma già credevo. Ho creduto nei dogmi, perché ho creduto alla testimonianza di un vero cristiano.”. Un sacerdote giapponese disse a p. Luciano: “Padre Oshida ha accolto il Vangelo nella sua anima giapponese, senza averla prima manipolata di cultura occidentale. Quindi la sua fede cristiana è semplice.”.
Nel profondo del suo cuore il Vangelo e lo Zen si sono incontrati, ed egli ha sempre detto: “La speranza del duemila, quella speranza che fa sbocciare i fiori variopinti e crea gioia, consiste nel fatto che le falde sotterranee della spiritualità buddhista e della spiritualità cristiana -proprio le più sotterranee, quelle che sono rimaste pure- stanno incontrandosi.”.
L’eremo Soan si trova nella provincia di Nagano, non distante dal monte Fuji, ed è costruito come una tradizionale abitazione contadina; p. Oshida l’ha fondato senza uno statuto, tutto viene affidato alla provvidenza, e si tratta di un luogo umile che si confonde con le risaie, i ruscelli e la vita rurale del vicino villaggio. Ancora più che ad Antaiji la simbiosi con la natura è semplice e naturale, e in questa essenzialità si può fare esperienza di ritorno all’origine, alla terra, al silenzio del cuore. In un luogo come questo è possibile sperimentare che dai gesti semplici del lavoro quotidiano scaturisce l’umile consapevolezza di essere piccoli, e che il dolce abbraccio del creato è segno della carità divina; senza fronzoli di sorta, l’eremo non appare come un luogo cristiano o un luogo buddhista: la cappella (dove si praticano lo Zazen e l’Eucaristia) è una semplice capanna dal tetto di paglia, e la tomba di padre Oshida un cumulo di terra.
Ora vive stabilmente all’eremo solo Kawazumi Hiroko, sorella domenicana che ha vissuto qui per anni. Oggi grazie a lei continua a sopravvivere ciò che padre Oshida ha costruito, anche attraverso l’aiuto delle persone che frequentano il luogo e si ritagliano una pausa di ritiro. Da ogni oggetto traspare ancora lo spirito del fondatore, ogni gesto della sorella comunica la pace e la compostezza dello Zen, mentre il suo sorriso trasmette la carità e la dolcezza dell’amore di Dio, ricevuto gratuitamente e altrettanto gratuitamente trasmesso agli altri, con naturalezza. Ciò che ci ha toccato direttamente il cuore è stato proprio quell’abbandono di sè nell’umile servizio, abbandono che rende pienamente partecipi al mistero della vita. Essa palpita in ogni esistenza e scaturisce dal silenzio, e ascoltare quel silenzio è fare esperienza della sorgente originale (che è anche la meta) di ogni cammino:
Se c’è la fonte
c’è il ruscello,
ecco lo scorrere,
grazie,
grazie.P. Oshida
Vi è un detto che suona così: “Un giapponese nasce scintoista, si sposa cristiano e muore buddhista.”
Questo è un altro tratto caratteristico della cultura nipponica: non necessariamente bisogna separare due cose differenti, senza escludere nulla si può essere buddisti e anche scintoisti. Così è stato nei secoli scorsi, nel corso dei quali entrambe le tradizioni (non senza conflitti) hanno convissuto e si sono influenzate a vicenda.
In realtà in Giappone, soprattutto oggi, l’atteggiamento diffuso nei confronti della religione è di tipo abbastanza superficiale: per esempio lo sposarsi in chiesa con il rito cristiano avviene in cattedrali costruite apposta, e sono in molti a richiedere questa messa in scena che le agenzie di cathering offrono compresa nel pacchetto dei festeggiamenti. Noi abbiamo visto da lontano una di queste chiese fasulle, una copia di San Petronio in Bologna costruita di fianco al ristorante, decisamente più grande delle chiese delle parrocchie cristiane che abbiamo visitato! Si tratta di semplice attrazione per l’esotico, mentre la comunità cristiana effettiva è composta solamente dall’1% della popolazione.
Anche oggi in mezzo all’elettronica sopravvive lo spirito poetico
* Praticare Zazen
S. Ignazio ci esorta a fare attenzione all’atteggiamento che assumiamo quando entriamo in preghiera: siamo autocentrati o fuoricentrati? Concentrati su noi stessi oppure disposti ad accogliere, aperti all’incontro con l’Altro da noi? Io credo che lo Zazen sia una pratica preziosissima perché aiuta a non essere autocentrati, educa ad assumere un atteggiamento di ascolto, ed in particolare trovo sia molto utile prima di entrare in preghiera, nudi al cospetto del Padre (con questo non intendo sminuire la pratica dello Zazen riducendola ad un semplice strumento, spero che sia chiaro).
Timoteo Tommasini
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