13:24 Un’altra parabola espose loro così: «Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo.
13:25 Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò.
Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio». Un’altra parabola espose loro: «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami». Un’altra parabola disse loro: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti». Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!
* Il misterioso campo che è prima del buon grano e della zizzania
Il misterioso campo dove il Figlio dell’uomo semina il buon grano e il maligno la zizzania è la natura dell’uomo, la sua esistenza come creatura. La parabola della zizzania risveglia in noi la domanda che inevitabilmente ci poniamo ogni volta che vogliamo darci ragione della presenza del bene e del male dentro di noi e dentro la realtà. Perché alcuni uomini si comportano come figli del regno, manifestando una natura buona; mentre altri come figli del maligno, manifestando una natura cattiva? La spiegazione che abitualmente ci diamo è di questo tipo: tutti gli uomini all’origine sono ugualmente buoni, ma lungo la strada della vita, tentati dal maligno, possono abbandonare il bene e scegliere il male. Dio sarebbe il creatore della natura buone; mentre qualcosa d’altro, composto di maligno che tenta e di libertà umana che si lascia tentare, sarebbe la causa del male. Se però ci addentriamo nei meandri della natura umana senza averla predefinita in anticipo, ci rendiamo conto di essere davanti a qualcosa di misterioso che le nostre interpretazioni non riescono a sondare: se mettiamo in risalto un aspetto, ci sfugge l’altro e viceversa. Perché, se all’origine siamo tutti buoni in modo uguale, lungo la strada alcuni restano buoni e altri diventano cattivi? Perché c’è una bontà vulnerabile e una invulnerabile? È proprio vero che alcuni sono solamente buoni e altri solamente cattivi? Basta a spiegare le scelte differenti dei buoni e dei cattivi addurre come unico motivo la libertà umana? Oppure già nella natura di ogni uomo c’è una predisposizione o forse anche una vocazione a diventare buon grano o zizzania? San Paolo scrive di sé nel testo sacro: «Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto… infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,14-19) .
Non cerchiamo un perché; invece la via che ci introduce a comprendere la natura dell’uomo è abbandonare i perché e vivere la vita tutta intera in modo profondo, senza determinarla come buona o cattiva con pregiudizi di sorta. «Lasciare che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura». Solo allora si potrà capire! Quello che sembrava buon grano forse alla maturazione si rivelerà come zizzania o viceversa. Così quello che in me ora sembra pungiglione di satana, come lo chiama Paolo (2Cor 12,7), ossia difetto o contraddizione o insuccesso o anche peccato, in verità è strumento di grazia con cui il Padre mi libera dalla tentazione di insuperbirmi ritenendomi senza colpa. Non dobbiamo avere fretta di giudicare come buono, quindi opera del figlio dell’uomo, o come cattivo, quindi opera del maligno, ciò che accade nella nostra vita. Lasciamo crescere assieme fino alla maturazione. Ciascuno di noi, prima di essere i suoi aspetti buoni o quelli cattivi, è anzitutto il campo della sua esistenza, come l’ha ricevuto il giorno della creazione.
«Colui che semina il buon seme è il figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l’ha seminata è il diavolo». La natura dell’uomo è anzitutto come un campo non seminato, un campo neutro di fronte sia al buon grano che alla zizzania. C’è nell’uomo qualcosa che né il bene può migliorare, né il male può peggiorare: la base originaria, prima che noi scegliamo il bene o il male. Nell’handicappato di mente essa è l’unico grande tesoro che manifesta il valore del suo esistere. Sì, anche se lui non può diventare né buono, né cattivo. Esistere è qualcosa di più fondamentale e carico di significato che diventare buono o cattivo. Ogni uomo è qualcosa di più fondamentale del fatto di andare in paradiso o all’inferno. San Paolo, santa Teresa del Bambin Gesù e altri santi si dicevano indifferenti al paradiso o all’inferno; semplicemente erano riconoscenti di esistere. Il rapporto originario che essi sperimentavano di avere con Dio, prima di essere classificati come buoni o cattivi, prima di meritare il premio o il castigo, era per loro più che sufficiente a dare significato al loro esistere e a riempirli di gratitudine.
C’è un profondo significato nell’esistenza di ogni uomo, sia egli un figlio del regno, sia egli un figlio del maligno. Questo è a fondamento del comando evangelico di non giudicare e di non condannare. C’è un ruolo che deve compiere il buono e un altro che deve svolgere il cattivo. Come Gesù doveva compiere la parte di essere consegnato nelle mani dei peccatori per volontà del Padre, così Giuda doveva svolgere il compito di consegnarlo. «E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda iscariota, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù gli disse: “Quello che devi fare fallo presto”» (Gv 13,26-27).
Cristo, il santo, chiede a Giuda, il rappresentante dell’opera del maligno, di svolgere presto ciò che doveva svolgere. Come può il santo chiedere a un suo discepolo di affrettarsi a compiere qualcosa che sia essenzialmente male? Era scritto che così doveva essere. È meglio compiere ciò che dall’eternità e scritto su di noi, fosse anche la contraddizione del peccato, che cercare di diventare santi per capriccio proprio. Ciò che vale è il ruolo che il Padre ci ha affidato. «Quello che devi fare fallo presto». Chi di noi vorrebbe che Giuda non avesse tradito e così il mondo fosse rimasto privo del Vangelo, della croce e della risurrezione?
«E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». Dobbiamo fare come l’agricoltore che raccoglie la zizzania e la brucia in cenere. La zizzania prodotta dal campo è di ostacolo alla crescita dei cereali; ma, diventata cenere, concima il campo e nutre i cereali che vi crescono. Così l’opera del maligno viene trasformata in opera del regno, grazie alla natura del campo che è creazione del padre. La natura originaria di ciascuno di noi, per cui assomigliamo a Dio, è la prima nostra ricchezza: grazie a questa natura anche l’opera del maligno può trasformarsi in opera del Figlio dell’uomo. Per questo morendo in croce Cristo ha supplicato: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Quello che fanno non è la loro vera natura. Prima del loro peccato c’è la loro natura originaria creata dal Padre. I peccati saranno bruciati nel fuoco e la natura originaria sarà resa feconda dalle loro ceneri. Così la festa sarà più grande per ogni peccatore pentito.
* Piccole erbacce crescono
Non ho presente l’aspetto della zizzania; non ho mai lavorato in un campo di grano, mi sono sempre limitato ad ammirarne i colori e i movimenti che danno forma di onde dorate al soffio del vento. Non so se la zizzania assomiglia al grano, se è immediatamente distinguibile al primo sguardo, o se si mimetizza tra le spighe. Pare di capire, dalla parabola, che questa mala erba cresca così vicina alla pianta di grano da far si che, sradicando una, venga via anche l’altra. Questo mi ricorda la condizione di un’altra pianta, della cui coltivazione ho avuto invece diretta esperienza per alcuni anni, altrettanto benefica del grano per il sostentamento dell’uomo, un mattone fondamentale del suo sviluppo culturale e civilizzatore, e altrettanto, se non più ancora, soggetta all’insidie delle male erbe. La pianta del riso solitamente viene fatta crescere, come ognuno sa, nell’acqua. Questo non perché il riso sia una pianta acquatica (e infatti vi sono popolazioni che la coltivano a secco) ma proprio per contrastare le erbacce che prosperano nella sua vicinanza. Ormai, probabilmente, esistono diserbanti selettivi che distruggono tutto ciò che non è riso, per cui non si pone più il problema di distinguere la piantina buona da quella cattiva e del modo e del tempo di eliminare la dannosa, mentre si pone forse il nuovo problema degli effetti secondari del diserbante sulla pianta buona. Ma problemi agricoli a parte, l’antico sistema di accudire alle risaie, come l’ho visto in opera, può servire ancora, credo, per un supplemento di metafora.
La piantina del riso ha una radice così esile e corta che basta niente per sradicarla. Anche quando la spiga è formata e pesante, il rapporto fra la parte della pianta che sta sotto terra e quella che emerge è talmente impari da far si che a volte sia sufficiente un forte vento per staccare da terra la corta radice. Spesso il solo camminare fra le file di piante di riso è sufficiente a sradicarle, perché il piede nel fango fa un effetto di ventosa che abbatte le piantine. Eppure è necessario andarci in mezzo, perché le erbacce crescono lo stesso nonostante l’acqua, e se non le si toglie finché le piantine sono piccole, le piante che noi chiamiamo maligne soffocano il riso: infatti sono piante che non portano frutto, che non fanno spiga, e quindi crescono più in fretta perché mettono tutta la loro forza vitale nello sviluppo in altezza. In particolare c’è una pianta che è il nemico numero uno del riso e del coltivatore. È pressoché identica alla pianta del riso, per buona parte del suo sviluppo: si distingue solo perché, là dove la radice diventa corpo della piantina, assume una tenue colorazione rossa mentre nel riso quella zona è bianca: per il resto le due erbe sono identiche. Non solo: quella mala erba cresce attaccata alla pianta del riso, così attaccata che le radici si intricano: e sradicando una viene via anche l’altra, a meno di non tenere conficcata nel terreno la piantina di riso con una mano, mentre con l’altra si sradica l’erba cattiva. Insomma, si è di fronte a un grosso problema: non si può, come nel caso del grano, aspettare il raccolto per fare la cernita della zizzania, perché raccolto non vi sarebbe a causa del soffocamento delle piante di riso, e nello stesso tempo si rischia di sradicare tutto o di non saper distinguere la pianta buona dalla cattiva.
Fuori di metafora, quelle che noi chiamiamo erbacce, hanno il loro sviluppo intrinseco. Ci sono erbacce che devono crescere fino al raccolto: ci penseranno gli angeli a fare la cernita. Ci sono erbacce che dobbiamo distinguere ed estirparle da soli, altrimenti ci soffocano: dobbiamo diventare gli angeli noi stessi, o saper dar retta all’angelo che è in noi. C’è un tempo adatto per estirpare l’erbaccia: ogni erbaccia, così come ogni erba buona, ha il suo tempo: svellerla prima può essere letale anche per l’erba buona, dopo può essere tardi. Ci vuole pazienza e accortezza: la pazienza di aspettare che l’erba non buona si riveli per quello che è, mostri il suo segno distintivo; l’accortezza di saper riconoscere quel segno, che può essere piccolo ma è indelebile, e smaschera ogni mimetismo. Dobbiamo sapere che un’erbaccia non si può mutare in un’erba buona: è sua natura e sua parte di essere erbaccia. Tutto dipende dal frutto: la distinzione si fa dalla fine. Questo ci assolve dalla necessità del giudizio, ma ci impone la necessità del discernimento. Per il resto ogni cosa fa la sua parte: erbe buone, erbe cattive, angeli, esseri umani, campi di grano, campi di riso.
Tuttavia, pure stando così le cose, i fiori cadono proprio mentre per effetto li vorremmo trattenere, le erbacce crescono proprio mentre noi con disgusto le rifiutiamo» (Eihei Doghen, Ghenjokoan – La profondità evidente del presente che si fa presente).
Padre Luciano Mazzocchi
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