«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L’ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. É venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.
* Il terzo figlio che noi vorremmo essere
Perché non c’è il terzo figlio che al comando del Padre di andare a lavorare nella vigna risponda di sì e subito mantenga la promessa fatta? Noi tutti vorremmo essere quel terzo figlio; tutti i genitori vorrebbero avere figli come lui e tutti i sacerdoti vorrebbero che i loro parrocchiani appartenessero alla sua categoria. Ma nella parabola di Cristo quel terzo figlio non c’è.
Il terzo figlio che dice di sì ed esegue subito quello che ha promesso ci attira al punto che anche da adulti maturi, oppure anche da anziani, non ci siamo ancora conciliati con la nostra realtà così com’è. Continuiamo a rimpiangere l’innocenza perduta e a odiare la vita che ce l’ha portata via. Ce la prendiamo con gli altri, perché ci hanno influenzato con il loro cattivo esempio, o con gli avvenimenti che ci furono avversi. Soprattutto siamo scontenti verso noi stessi perché constatiamo, dopo tutto, di non essere differenti dagli altri in debolezza e fragilità. Avremmo voluto coronare il nostro pellegrinaggio terreno senza perdere l’innocenza primordiale. Se abbiamo il coraggio di indagare in radice questo nostro atteggiamento, ci accorgiamo che la mira nascosta per cui vorremmo essere quel terzo figlio è il nostro autocompiacimento. Vorremmo noi stessi poter far festa alla nostra santità, naturalmente mettendo in rilievo di essere migliori degli altri, poveri peccatori. Nella sua parabola Cristo non conosce questo terzo figlio. Né il Padre l’ha creato né lo Spirito Santo lo irrora di pioggia primaverile.
«Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò». Il primo figlio è la categoria del sì a parole e del no a fatti. Sono gli incoerenti e gli irresponsabili; ma sono anche gli idealisti e i presuntuosi. Questi dicono di sì ad alto livello, mirando piuttosto alla loro autorealizzazione. Quel sì, che sembra generosità e che invece si rivela inganno, nasce probabilmente dal fatto che uno già prefigura per sé la meta, come coloro che fanno un cammino religioso per costruire il loro carattere e adornarsi di virtù a loro utili per fare guadagni nella vita. È anche il si che una istituzione religiosa può innescare quando, già in partenza, si ripropone di raggiungere certi effetti sociali e politici. Sembra un sì detto a Dio, invece è detto a se stessi. Quindi è destinato a non portare frutto, perché nel terreno manca l’humus dell’umiltà.
«Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò». È l’esempio di questo secondo figlio che viene additato dal Vangelo come la vita da percorrere. È la Via del no che diventa sì; forse è la via di un ripetersi di no che diventano sì. Come mai la strada non è tutta diritta, ma si snoda tra tante curve, al punto tale che spesso sembra di fare ritorno indietro?
Ci pare una domanda dalla difficile risposta, o comunque dalla risposta complessa. Eppure se a una mamma fosse proposto di avere dei figli che non fanno mai i capricci, che non piangono mai, che non sporcano mai, in altre parole dei figli che conservano l’innocenza originale intatta e non necessitano delle cure educative dei genitori, quella mamma rifiuterebbe. È infinitamente più vitale avere figli che dicano di sì, e poi di no, e poi ancora di sì, fino al giorno in cui la via tutta a curve non sbuchi in una pianura dagli ampi orizzonti. È meglio, perché così genitori e figli crescono assieme, scoprono assieme, piangono e ridono assieme. Senza la fatica di camminare, e senza l’attenzione del verificare continuamente la direzione o di correggerla quando è sbagliata, non si fa l’esperienza della via e non nasce la consapevolezza della via.
Qualora all’uomo fosse possibile discutere con Dio sulla creazione, l’uomo che s blocca nel sì facile, detto con le labbra e non coi fatti, chiederebbe a Dio di essere un creatore migliore e di crearci in modo tale che nella vita ci sia meno da tribolare. Invece l’uomo che nella fede converte il no della sua negatività nel sì reale della vita concreta, chiederebbe a se stesso di essere una creatura migliore e a Dio direbbe soltanto: Grazie! Il secondo figlio non sperpera la vita inseguendo chimere di santità irreali, oppure rimpiangendo l’innocenza originale perduta per sempre; convertendo il no dei suoi errori nel sì della fede operosa, lavora realmente nella vigna del Signore, a cui offre perfino i propri difetti e peccati.
«In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passeranno avanti nel regno di Dio». Cristo aveva l’ardire di pronunciare queste severe parole di fronte ai principi dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, rappresentanti di tutti i sacerdoti di tutte le religioni. In quei sacerdoti siamo prefigurati anche noi, ciascuno di noi, con la sua tendenza a giustificarsi con abili ragionamenti e astute parole . è sempre possibile confondere il cammino religioso con atteggiamenti di falsa umiltà.
«Voi,… pur avendo visto…, non vi siete nemmeno pentiti». È possibile vedere e non pentirsi. È possibile compiere le pratiche spirituali le più sante, come l’eucaristia e lo zazen, ed essere vacui, senza che avvenga alcun rinnovamento. In tali situazioni è grazia se l’uomo cade in qualche peccato eclatante che smascheri la sua ambiguità e così, venuto allo scoperto, cominci il cammino della conversione. È molto più vicino al regno di Dio un peccatore vero, che un santo falso.
* Conflitto
Questa parabola dei due figli è una di quelle che più mi danno da pensare. Sarà perché mi riconosco per carattere nel primo figlio e per condizione esistenziale nel secondo, ma non riesco a vederli come due: mi sembra di essere un po’ uno e un po’ l’altro. In oltre mi pare che manchino altri due figli: quello che dice si è va, e quello che dice no e neppure va. Dobbiamo pensare che questi due non facciano parte degli eredi della vigna. Che quello che dice no e non va sia fuori, è facile da capire: rifiuta completamente ogni partecipazione e si autoesclude. Meno facile capire perché non è nominato un ipotetico figlio che dice sì e coerentemente va. Ma se riflettiamo, questo figlio non è un vero figlio, perché non ha bisogno di un padre, di chi lo educhi. Ha già capito tutto da solo, è perfettino così. Un figlio è figlio per un padre; un padre è padre per un figlio. La funzione di padre non si esaurisce nell’atto del generare: c’è poi un rapporto da educatore a educando in cui i due attori del rapporto sono complementari e necessari l’uno all’altro. Se viene a mancare la necessità di uno dei due elementi, il padre, in quel momento anche l’altro scompare: quel figlio ipotetico non esiste come figlio, per questo non è nominato.
Vorrei fare a questo punto un piccolo inciso. Nelle parabole si parla sempre di padre, e non di madre: una spiegazione del perché ci vuole. a parte le considerazioni culturali e storiche, per cui ai tempi e nei luoghi d Gesù il rapporto di discendenza era incentrato sul rapporto padre-figlio, io credo che, da un lato, si intenda comprendere nella parola padre anche la madre: cioè che padre dica tutto il complesso delle figure dei genitori e allevatori dei figli. D’altro lato credo ci sia una differenza fra ciò che rappresenta la figura del padre e quella della madre che l’uso del termine padre vuole sottolineare, qui e in altre occasioni del testo evangelico. La maternità è una funzione che stabilisce un legame fisico fra madre e figlio: è la trasmissione della vita nel senso più diretto, la vita che è tutta racchiusa in quel passaggio di vita. Il legame della paternità è molto meno corporale, più immateriale: è un po’ come il passaggio della vita intesa come scintilla universale, la vita che accende altra vita. La paternità è insomma più impersonale della maternità, e quindi il termine padre è più adatto del termine madre per esempi di carattere metaforico.
Per tornare al teso, nei due figli che Gesù racconta, è presente un conflitto: per questo essi sono reali. Il rapporto che tanto il primo che il secondo figlio hanno con il padre, con la vigna, con se stessi, con il proprio modo di essere e di fare è reale proprio perché segnato dal conflitto. Senza polo negativo e polo positivo a contatto non si accende nessuna luce. Certo, Gesù ci dice che il secondo figlio, quello che risolve il conflitto andando nella vigna precede il primo figlio in cui invece il conflitto si risolve nel non andare. Però Gesù non dice che il secondo figlio non entrerà: dice che sarà preceduto dall’altro.
«Sono venuto a portare la guerra, non la pace». Gesù afferma che senza conflitto non c’è crescita: senza conflitto la vita non diviene carne e ossa e sangue, resta una questione intellettuale. Perché penetri nel corpo, perché la vita si faccia corpo, è necessario il conflitto. La colpa del primo figlio, infatti, è di lasciare il conflitto allo stato latente, di non prenderne atto. In un testo di cui non ricordo la collocazione e che cito a memoria Doghen dice:
Fra una persona che si entusiasma per la pratica e per la via e si butta a capofitto inizialmente, anche perché convinto da quanto sente dire, e una persona che pratica magari controvoglia ma che sa cosa sta facendo, sa che la pratica è necessaria, piaccia o non piaccia, è molto probabile che il primo a un certo punto si deluda e smetta e il secondo invece continui fino alla fine.
Chi si butta nella pratica religiosa perché deluso dal mondo, perché si sente inadeguato ai compiti del mondo, perché vuole sfuggire al mondo, dirà subito sì volentieri a chi gli indica la via, ma è probabile che perda entusiasmo quando si rende conto che andare nella vigna non vuole dire eludere i problemi. Chi invece sa di essere attaccato al mondo, ai suoi piaceri, al suo fascino, ma sa anche, proprio perché ci si è celato dentro, quanto ingannevole e inconsistente sia il mondo, anche se non ha voglia si rende conto che cercare la via è necessario. Necessario, ma non indolore: bisogna rinunciare a tante cose. Chi rinuncia a cuor leggero non ama davvero le cose a cui rinuncia. Chi non ama le cose a cui rinuncia, che sono le cose che ha sotto gli occhi, le cose che hanno a che fare con la sua vita di ogni giorno, sarà capace di amare davvero le cose che non si vedono, e che non danno soddisfazione? La prostituta, il pubblicano, sono l’esempio di chi ama il mondo, i suoi piaceri con il corpo: sarà anche un modo di amare egoista e impuro, una forma di amore che si chiama in gergo religioso attaccamento, ma è pur sempre amore. Un amore del genere brucia e fa male, spesso fa fare il male: ma può innescare il conflitto che genera il pentimento, senza il quale la conversione non è possibile. L’amore intellettuale del primo figlio è asettico, meno coinvolgente: per questo si spegne facilmente.
Direi che è una questione di spessore, di profondità: il secondo figlio prima disubbidisce, non accetta il comando paterno, fa di testa sua: poi capisce e va. Va perché ha capito sulla sua pelle e con la sua testa di dover andare. Il primo figlio dice subito sì, per essere ubbidiente: ma poi non va perché l’ubbidienza che è solo assenso è tiepida, non nasce dall’esperienza e dalla convinzione.
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