Fine anni ’70: un aereo partito da Tokyo e diretto a Londra via Roma, causa agitazione sindacale, sosta alcuni giorni a Rawalpindi. Fra i passeggeri, due ministri di religione: un italiano, missionario cattolico fra i buddisti del Giappone, e un giapponese, missionario Zen fra i cristiani d’Italia. Quella sera, i due condividono la stessa camera di un dimesso albergo presso la moschea della città, messo a disposizione dall’agenzia aerea. L’ardore dei musulmani che si precipitano alla preghiera, è la scintilla che accende la miccia di un dibattito serrato fra i due, libero da ogni etichetta e maschera. Dichiarano di sentirsi rivali di visione di vita e di temersi l’un l’altro; quindi si lanciano dardi sulle reciproche debolezze. “Il Cristianesimo è violento fino al midollo: io buddista non mi farò mai cristiano!”: afferma il monaco dello Zen. “Il Buddismo è narcisismo di pratiche religiose: io cristiano non mi farò mai buddista!”: risponde il missionario cristiano. Da questo scontro frontale, che pare condannare al fallimento ogni tentativo d’incontro, ha invece inizio l’affascinante avventura narrata in questo libro, genuina testimonianza della via del dialogo interreligioso tra Vangelo cristiano e Zen buddista. Sì, perché il dialogo ha un senso ed è fecondo di una nuova speranza, solo se è spoglio e cordiale, da resistere alla tentazione di fingere.
Quando il missionario cristiano giunse a sperimentare lo Zen intrinseco alla sua anima, avvertì crescere dentro di sé l’amore del Cristo. E si sentì vero amico del suo rivale.
Le onde si rifrangono e, pregne di ossigeno, rientrano nel seno del mare, fecondandolo di vitalità.
p. Luciano Mazzocchi
Paoline Editoriale Libri
E’ consultabile online la prefazione al libro di Cesare Viviani
Per chi avesse difficoltà a trovarlo è possibile anche acquistare online il libro direttamente dal sito delle Paoline.
Ci sono arrivati anche tanti commenti e recensioni.
E nel frattempo di questo libro si comincia a parlare in giro.
L’inizio del libro con le due lettere tra il monaco e il missionario da laico l’ho sentito un pò come cominciare a scalare una montagna senza riscaldamento, mi ha sinceramente ravvivato il mio anti-teologismo (ed è un bene).
Invece dal IX capitolo in poi c’è Luce, il libro cambia colore e peso e esprime tutto il sapore della linfa che da vita. Spesso, sinceramente, mi sono fermato ad assaporare e ringraziare per questa Luce che emana. Ho anche capito che il Signore ti ha amato tanto da darti di quelli schiaffoni materni (oltre che molte carezze) e così ho potuto rivedere quelli che il Signore mi ha dato (forse ancora pochi) e così riposare nel Suo amore. E’ un libro prezioso perchè è scritto da una persona viva, che ha avuto il coraggio di vivere ad occhi aperti e che continua a vivere veramente! Grazie infinite!
Pietro Bizzini
E’ uscita una recensione di questo libro anche sul numero 2 della rivista trimestrale “La Stella del Mattino”, a cura di Federico Battistutta
Caro Padre,
non scelgo mai i libri, ma lascio che i libri incontrino me. Ho letto ‘Delle onde e del mare’. Lo dovrò rileggere e rileggere ancora. Per una praticante non credente ma costantemente in cerca e piena di dubbi è stato come trovare una dolce brezza dopo una dura bolina.
Con riconoscenza
daniela
Ho acquistato il suo ultimo libro e, leggendolo, vengo fatto destinatario della empatia profonda tra Oriente ed Occidente
grazie
Giandiego
Ho letto “delle onde e del mare” e anche riletto più volte alcuni passaggi. Mi è piaciuto moltissimo e ritengo che la scelta di fondere narrazione, riflessioni, filosofia e religione rappresentino la volontà di una “grande anima” di condividere fraternamente ed in umiltà ma con tutte le proprie forze, le proprie conquiste umane e spirituali.
Ancora una volta le comunico tutta la mia riconoscenza per questa sua capacità di condividere e trasmettere vive emozioni e profonde intuizioni.
Credo che la pubblicazione di un libro così importante e fuori dal coro, sotto un editore così istituzionale sia da ritenersi un piccolo miracolo.
Antonio Licciulli
a P. Luciano Mazzocchi.
Carissimo Fratello,
finalmente ho potuto assaporare il tuo “Delle Onde e del Mare – l’avventura di un cristiano in dialogo con lo Zen” e mi sono entusiasmato. Questo è dialogo e mutua fecondazione! Per me il Dio cristiano non è Sostanza, è Trinità (non tre Dei) e quindi Relazione. Non si potrebbe tradurre in Spagna? Sono sempre in rapporto con Jiso e in comunione con te.
E’ importrante superare la “monocromia” regnante. Grazie di cuore anche se i miei libri non lo lasciano vedere. Benedizione fraterna! Ogni anno è sempre nuovo, come ogni situazione. Un abbraccio.
Raimon Panikkar
Caro Padre Luciano,
le propongo questa riflessione che nasce dalla lettura del capitolo XXVIII
( “Il respiro in grande – lo spirito e la materia” ) del suo profondo
libro.
Ordino di fronte alla memoria alcune frasi tratte da quel capitolo:
“Non c’e’ religione dove non ci sia ‘respiro in grande’, tenuto ‘in
grande’ dalla sfida dell’ ‘oltre’ i parametri culturali. […] Ma e’
proprio della religione, mentre accoglie cordialmente come base di
partenza la cultura locale, prospettare all’uomo l’ ‘oltre’ la sua
cultura.”
“Come mai l’occidentale, che persegue la concretezza, adora il Dio
trascendente? Come mai l’orientale, che ricerca la liberta’ interiore
riportando tutto al silenzio meditativo sull’impermanenza della realta’,
ha adottato, come legge del suo comportamento, la ‘naturalezza’ della
madre natura? In questo paradosso c’e’ la ‘religiosita” delle religioni.”
La tensione verso cio’ che sta oltre l’orizzonte della propria percezione
e’ fatto comune che percepiamo fin da bambini, quando lo stupore dinnanzi
ad un mondo che esiste indipendentemente dal nostro volere (a volte a
dispetto della nostra volonta’ inerme) si presenta alla nostra
consapevolezza con l’evidenza concreta del nostro “non sapere”: non sapere
trovare entro il nostro orizzonte un perche’ credibile, ragionevole, al
nostro esistere qui, ora.
Potremmo fissare con un’immagine la percezione di questa evidenza:
potremmo pensare al bambino che osserva per la prima volta il cielo
stellato cercandone la ragione, la sorgente di un disegno tanto vasto e
vertiginosamente ricco di particolari da non poter certo essere attribuito
alla sua propria capacita’ immaginativa. Possiamo forse ricordare una
reminiscenza del nostro interrogare la distesa sconfinata di stelle
cercando di indovinare la lingua adatta a comunicare con essa, a chiedere
direttamente ad essa la ragione del sue essere.
I segni che la nostra fantasia sa tracciare unendo tra loro le stelle in
costellazioni, le decine di fantastiche cosmogonie che riducono quel
radicalmente ‘oltre’ a un qualcosa contenuto, quasi stipato a forza nei
NOSTRI pensieri, sono solo il primo passo di quella antica ricerca
dell’alfabeto con cui il mondo fuori, il mondo ‘oltre’ di noi,
“significa”, ovvero “si fa segno” comprensibile.
La ricerca del significato di questo ‘oltre’ e’ anche la radice della
scienza come la intendeva Galilei:
“Ma io veramente stimo, il libro della filosofia esser quello che
perpetuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi; ma perche’ e’ scritto in
caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non puo’ esser da tutti
letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere,
coni, piramidi et altre figure matematiche, attissime per tal lettura”
Ecco la ricerca dell’alfabeto che rende comprensibili le stelle (o se
vogliamo le onde che in numero inconcepibile disegnano il mare, con una
trama tanto vasta quanto infinitamente dettagliata, fino al piu’ minuto
spruzzo salmastro).
La ricerca di quell’anello di Salomone che consente di iniziare un dialogo
con qualcosa che “si nasconde”.
Qualcosa che “non puo’ esser da tutti letto”.
E la fiducia di aver trovato quell’alfabeto, che Galilei credeva fosse
fatto non di lettere ma di altri “segni” adatti ad esprimere un
“significato” piu’ grande e generale: “triangoli, quadrati, cerchi, sfere,
coni, piramidi” e cosi’ via.
Il punto e’ che l’alfabeto che cerchiamo deve gia’ essere qualcosa affine
alla nostra mente. Altrimenti non lo riconosceremmo come alfabeto.
Come lo e’ la geometria, ad esempio. O la matematica.
O come lo e’ una qualsiasi altra raccolta di simboli piu’ o meno
esoterici, dalla numerologia alla cabala all’alchimia all’astrologia,
dall’osservazione delle nuvole a quella delle interiora di animale, agli
oracoli, ai fondi di caffe, alla “rivelazione” dei libri sacri
(inconcepibile piano che si attarda nei millenni, in cui la voce e l’opera
dei profeti, la vita e le tragedie degli uomini e la stessa sorte dei
popoli non e’ altro che un breve insieme di segni alfabetici che formano
– per chi li sa leggere – il pensiero ineffabile riecheggiato da Dante, o
quell’inimmaginabile suono universale dell’AUM vedico, o quel sublime
canto beato per cui un’atroce battaglia e’ l’occasione della rivelazione
dell’assoluto di Krishna per Arjuna, essendo tale terribile battaglia
fratricida una brevissima nota di quel canto).
Questo magnifico caleidoscopio dipinto da generazioni di uomini vuole
ricondurre quell’ ‘oltre’ radicale, in qualcos’altro meno radicale.
Qualcos’altro che per quanto richieda una titanica fatica possa comunque
consentire di riportare il caos nel recinto del cosmo. L’alterita’
radicale nel recinto del razionale, del dicibile.
In occidente sappiamo che Dio si fa uomo, e lo possiamo credere solo
postulando che in principio fosse il logos, la parola esprimibile con un
alfabeto di segni e simboli intelligibili, almeno potenzialmente.
In oriente l’incarnazione di Krishna esige la stessa razionalita’ di fondo
del creato: quell’infinita ragione che -solo se esiste- puo’ manifestarsi
agli uomini.
L’illuminazione del buddha esige che cio’ che e’ ‘oltre’ possa essere
realizzato, e realizzato da un uomo.
Tuttavia l’orizzonte umano, per quanto vasto e illimitato spazi il
pensiero, e’ confinato nelle nostre limitate percezioni, nel nostro corpo
fragile e soggetto alla sofferenza, alla malattia, alla morte.
Nelle nostre spiegazioni della Ragione del mondo includiamo naturalmente
anche motivi per la sofferenza, per il nostro essere limitati.
Ma non sappiamo, in realta’, se il silenzio di quell’ ‘oltre’ abbia un
motivo, se quell’ ‘oltre’ abbia una Ragione, ovvero se quell’oltre non sia
poi davvero ‘oltre’, ma un ‘qui’ fra i tanti pensieri e concetti pensabili
dalle nostre menti. Magari un pensiero molto venerabile, ma pur sempre un
pensiero.
Se costringiamo quell’ ‘oltre’ alla ragione, lo snaturiamo e ne facciamo
un feticcio dei nostri pensieri. Diciamo “luna” e guardiamo il nostro dito.
E’ il paradosso della mistica (o forse proprio il paradosso della
religiosita’ della religione, come detto in quel capitolo del libro), il
koan secondo cui la natura autentica quando viene detta non e’ quello che
viene detto, quando si fa logos e’ altro da se. Pero’ il logos e’ comunque
natura autentica, perche’ se bastasse parlare per snaturarla essa non
sarebbe autentica.