Sab 5 Ago 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

E diceva loro: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza». Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò da­vanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!». Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: «Que­sti è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!». E subito guardandosi at­torno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risusci­tato dai morti.

* Solitudine, splendore, comunione

Il Vangelo della tentazione nel deserto e quello della trasfigura­zione sul monte sono i due aspetti differenti, quasi opposti, che for­mano lo stesso cammino. Attraversando il deserto della vita l’uomo sale il monte della trasfigurazione, e l’esperienza della trasfigura­zione ridona il coraggio di scendere di nuovo ad attraversare il de­serto della vita.

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«Li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli». Nella vita occorre appartarsi e salire in alto da soli. Si possono avere mille amicizie e tutte buone; ma a un certo punto, senza rinunciare alle amicizie, bisogna appartarsi soli, a tu per tu con il mistero. Credo che anche nei momenti più intimi, come quelli che possono intercorrere tra genitori e figli, oppure tra sposi, oppure nei mo­menti più esaltanti come quelli tra gli atleti che vincono una gara, re­sti sempre un fondo di solitudine, come di qualcosa di incomunica­bile all’altro. Nemmeno scrivendo libri si può comunicare questo qualchecosa che resta nel fondo del cuore. La solitudine è compagna dell’esistenza umana. Sono sole le stelle nel cielo pur formando le galassie.La solitudine non è nemica dell’uomo; anzi gli è profondamente amica. È nella solitudine che l’uomo diventa consapevole del suo li­mite e della sua grandezza; è nella solitudine che l’uomo inizia a dia­logare con la sua radice che comunica con il mistero. Senz’altro an­che Gesù percepiva profondamente il senso della solitudine, mentre si dirigeva a Gerusalemme, dove i grandi sacerdoti già avevano com­plottato la sua condanna. Soprattutto il sicuro prepgio che i suoi di­scepoli non avrebbero retto alla prova e l’avrebbero lasciato lo fa­ceva sentire solo. Allora egli prese con sé i tre discepoli più cari e salìun’alta montagna, «loro soli». Era con i suoi discepoli, eppure questi non erano con lui con il loro cuore. Infatti lo stavano seguendo come per forza. Gli avevano consigliato di non salire a Gerusalemme, ma «Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti» (Mc 10,32). Gesù non poteva sfogarsi con loro; non avrebbero capito e li avrebbe rattristati. Questa è la vera solitudine: non potersi sfogare nemmeno con i tre amici più intimi.

«Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti». Nessun momento della vita è propizio a manifestare la propria luce interiore come quello della solitudine, quando uno deve scendere fino in fondo dentro di sé, là dove non si sente più alcuna voce, ma solo il silenzio. Allora l’uomo tacendo scopre se stesso e lo splendore nascosto dentro di sé, la sua somiglianza con Dio. Allora si riconcilia con tutto, ma in modo nuovo, senza fare violenza, perché ha visto la luce. Così, proprio mentre si apparta solo, ritrova i rapporti con gli altri, l’amicizia, la solidarietà.

«Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti». Perché Gesù proibisce di raccontare una scena così entusiasmante? Pietro subito aveva tentato di corrompere il Vangelo della trasfigurazione: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende…». Gesù proibì loro di raccontare l’episodio prima della sua morte e risurrezione, perché raccontandolo senza l’esperienza della vita avrebbero parlato senza convinzione. Dio cu­stodisce la preziosa perla, che è la sua immagine in noi, sotto la ce­nere dei nostri difetti. Con profonda riconoscenza continuiamo a sa­lire e a discendere il monte della trasfigurazione. Il salire e lo scen­dere è più santo che il rimanere lassù adagiati nelle tende, perché ciò sarebbe egoismo spirituale; mentre il salire e lo scendere è la vita, è l’eucaristia del corpo dato e del sangue versato nei doveri di ogni giorno, è lo zazen composto e armonioso di fronte al muro della realtà.

p.Luciano

* È bello stare qui

L’episodio della trasfigurazione è un episodio di fondamentale importanza per intendere la relazione che intecorre, nel cammino di fede, fra la realtà e la speranza. Guardlamolo da vicino. I tre evange­listi che lo descrivono, Marco, Matteo e Luca, concordano fin nei particolari, pur trattandosi di un episodio che non hanno vissuto di persona: infatti presenti erano solo Pietro, Giacomo e Giovanni. Questa sintonia ci dice che loro stessi davano molta importanza al­l’evento, anche se non potevano testimoniare di persona come era accaduto: i discepoli devono averne molto parlato fra loro. È come se per un attimo il vero volto della realtà che stavano vivendo si fosse mostrato senza veli, e tutto il cammino contraddittorio e spesso enigmatico che stavano percorrendo insieme a Gesù fosse divenuto un chiaro sentiero di luce senza ombre. Ci sentiamo pienamente vi­cini a Pietro, che esclama: «È bello per noi stare qui». Davvero sa­rebbe bello vedere il volto luminoso della realtà, senza la polvere e le ombre. Scoprire come veramente sono fatte di luce, tutte le cose, senza più tenebra, foschia, impedimento!

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Sarebbe bello, però… i nostri occhi non sono fatti per vedere solo luce. La luce noi la vediamo e ne beneficiamo grazie al fatto che proietta ombre incontrando le cose: ci fosse solo luce, non ve­dremmo niente. Se consideriamo che questa realtà è ingannatrice e illusoria, e che la vera realtà è luminosa e radiante, allora dobbiamo sapere di dover perdere gli occhi per poter vedere la luce.Ma bisogna fare attenzione: chi parla dell’illuminazione come della visione perfetta che non conosce ombra, o della contempla­zione estatica del volto di luce di Dio come punto finale di non ri­torno, non deve scordare che anche questo mondo è emanazione di luce, con i suoi chiaroscuri. L’apostolo Paolo dice: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia» (1Cor 13,12). Ma con i miei occhi di adesso non posso che vedere così, in modo confuso: so però, nella fede, che questo modo confuso è una forma, che io vedo imperfetta, del modo perfetto di essere che sostiene ogni cosa. In questo mondo, che è il mio mondo di ora, l’imperfezione è l’unica forma possibile della perfezione; il chiaroscuro, l’unico modo possibile di vedere la luce. La speranza di vedere meglio, di vedere faccia a faccia, non deve mortificare la realtà presente che è il teatro della mia vita: deve invece darle un più ampio respiro, collocarla nel suo giusto valore. Certo, dare ogni tanto un’occhiata dietro allo specchio può far bene al cuore; intuire ogni tanto che l’armonia percorre l’universo può essere di conforto: ci sono esperienze che allargano il cuore. Ma non è questo da ricer­care sopra ogni cosa. Ben più importante è alimentare la consapevo­lezza che questa realtà, così com’è, è il tesoro prezioso che mi è dato, la mia vita da vivere. Riuscire a dire «è bello star qui» perché non c’è altro posto che qui, e dobbiamo cercare di renderlo bello, è un atteg­giamento più religioso e più di fede che dire: come sarà bello stare làdove tutto sarà bello!

Il maestro Eihei Doghen scrive a questo proposito:

«Se dai origine al pur minimo scarto, il cielo e la terra si fanno in­commensurabilmente lontani; se dai adito al pur minimo “mi piace­non mi piace”, il cuore si smarrisce nella confusione. Per esempio, chi si vanta della consapevolezza raggiunta, chi abbonda di illumi­nazione, chi è riuscito ad adocchiare la sapienza, chi ha ottenuto la via, chi ha chiarito il cuore, chi ha dato impulso all’ideale di scuo­tere il cielo: altro non fa che trastullarsi nei pressi della soglia del nirvana, però ignora quasi del tutto l’operoso sentiero della li­bertà».

Jiso

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