Lun 11 Dic 2006 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Nella vita si apre la via

Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Pon­zio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’lturèa e della Traconìtide, e Lisà­nia tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la pa­rola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:

«Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sia riempito,
ogni monte e ogni colle sia abbassato;
i passi tortuosi siano diritti;
i luoghi impervi spianati.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!»

* Le nostre aspettative e la via

Il Vangelo di questa domenica ci mette di fronte alla sorprendente modalità dell’agire di Dio: sulla terra c’erano molti grandi capi politici e religiosi, ma la parola di Dio fu rivolta a un eremita che vi­veva mangiando miele selvatico e insetti, vestendo una pelle di cam­mello. Noi diremmo un outsider del buon senso. Il nome di questo uomo era Giovanni.

Ci domandiamo: come mai nella Bibbia ci sono pagine e pagine che descrivono minutamente come devono essere costituiti i sacer­doti (Esodo, Levitico, Deuteronomio) e come deve essere edificato e mantenuto il tempio di Gerusalemme? Tutto farebbe dedurre che proprio quelle persone e proprio quel luogo siano il prezioso ca­nale attraverso cui il Messia verrà presentato all’umanità intera. In­vece, dopo il lungo cammino dell’ Antico Testamento, imperniato sull’istituzione civile e religiosa del popolo d’Israele, il Messia viene ignorando tutto quell’apparato. Anzi, sarà rifiutato e messo a morte proprio dai grandi sacerdoti e dai dottori della Legge biblica, come bestemmiatore contro il tempio. La domanda non è soltanto rivolta a quanto accadde duemila anni fa, ma anche a ciò che avviene adesso, in noi e nel mondo. Cerchiamo Dio attraverso pratiche religiose, ade­riamo a qualche comunità di cammino spirituale per essere più sicuri di trovarlo, facciamo buone letture, pellegrinaggi, ritiri spirituali e al­tro ancora; per poi, alla fine, accorgerci che Dio era lì, vicino a noi, dove noi non l’aspettavamo. Cercavamo miracoli a destra e a sinistra, invece lui viene attraverso le cose più semplici.

Confidavamo di com­perare la sua grazia attraverso i nostri meriti e le nostre virtù; invece facciamo esperienza della sua presenza liberatrice proprio quando tocchiamo il fondo della nostra debolezza.

Perché Dio viene a noi attraverso sentieri montuosi e desertici e non invece attraverso l’autostrada delle nostre aspettative e del no­stro buon senso? Che significato ha percorrere una via, se poi Dio viene a noi da un’altra? Lo abbiamo cercato l’anno passato e siamo ancora qui, come fossimo all’inizio. Vale la pena riporre ancora aspettative nel nuovo anno liturgico appena cominciato?

Un giorno un pellegrino disse al rabbi di Kobryn: «Ho deciso di venirvi a trovare per vedere di imparare da voi come si acquista la ve­rità». Allora il rabbi rispose:

«La verità non si può acquistare. Dio os­serva un uomo che impegna tutta la sua vita per acquistare la verità e a un tratto gliene regala un po’, gratuitamente»[1].

Così è del nostro cammino spirituale: dobbiamo cercare la verità con tutte le nostre forze, con tutta la nostra intelligenza. Poi, forse, quando ci dimentichiamo che stiamo cercando, o quando continuia­mo a cercare solamente come ovvio dovere quotidiano, allora Dio in modo sorprendente e gratuito ce ne regala un po’. Se Dio ci desse la verità secondo i modi da noi pensati e secondo le aspettative che te­niamo accese con la pratica spirituale, allora noi monteremmo in su­perbia; e là dove compare la superbia la verità non è più. Dobbiamo essere fedeli alla nostra pratica religiosa, fino al punto di dimenticare che stiamo praticando. Allora, e solo allora, in modo umile potremo accogliere la grazia e la luce. È quando si fa silenzio che si ode la voce dal deserto: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sia riempito e ogni monte e ogni colle sia abbassato».

La vita è una lunga via, la via d~l Signore. Nessuno incontra il Si. gnore se si allontana dalla via che è la vita e non la percorre fedel­mente, così come ogni giorno si presenta a noi. A volte sprofon­diamo nel burrone dello scoraggiamento, altre volte saliamo sui colli e sui monti dell’entusiasmo gratificante. Colmare il burrone e abbas. sare il monte: è far ritorno sempre all’umiltà luminosa che tutto è via. L’eucaristia e lo zazen sono sacramenti di questa umiltà.

[1] Martin BUBER, Racconto dei Chassidim, Garzanti, 488.

p.Luciano

* La via del Signore della via

Nella meticolosa cura di collocare esattamente nel tempo la vi. cenda che annuncia la fine del tempo, inteso come tirannia della ca­ducità sull’eternità, c’è tutto il carattere particolare del Vangelo se­condo Luca e, molto probabilmente, di Luca stesso.

La via non è un’aspirazione del cuore, un affiato mistico, un con­cetto astratto: è un cammino molto concreto, fatto di singoli passi, che si attuano nel tempo e che, storicamente parlando in senso cri­stiano, è stata percorsa per la prima volta nei dintorni dell’anno deci. moquinto dell’impero di Tiberio Cesare, in Palestina. Gesù ha aperto quella che oggi si chiama via cristiana: prima di lui nessuno l’aveva mai percorsa. In questo senso l’unicità di Gesù di Nazaret è fuori di­scussione. E noi possiamo perCor!ere questa via, con i nostri passi, proprio perché è stata aperta da Gesù e perché si attualizza nel tempo, nella dimensione storica. Questo ci comunica Luca con la sua preoccupazione di dare precisi riferimenti storici temporali al suo racconto. Proprio questa è la sua dichiarata intenzione: stendere un racconto degli avvenimenti successi fra noi (Lc 1,1), differenziandosi in questo dagli altri evangelisti, in cui è preponderante la preoccupa­zione dell’annuncio (kerygma).

Ma questa via così concreta e calata nella storia, è, nel medesimo tempo, la via che il tempo non scalfisce e non condiziona. Subito dopo averla collocata in un momento storico le cui coordinate sono precisate con il massimo delle informazioni allora disponibili, Luca, ricorrendo alla citazione del profeta Isaia per bocca di Giovanni il Battista, afferma che quella via è incondizionata dal tempo in cui scorre, ed è immodificata da chi la percorre. Perché non è la via di un uomo o di tutti gli uomini che la percorrono, ma è la via del Signore: e la salvezza cui conduce non è la salvezza dell’uomo, ma la salvezza di Dio. Così il racconto e l’annuncio si fondono in un’unica realtà.

Il grido di Giovanni nel deserto, che rieccheggia il grido di Isaia, risuona all’inizio di tutti e quattro i Vangeli. La via della salvezza, che si apre di fronte all’uomo, non è una via costruita dall’uomo, o da lui realizzata e resa reale: è la via del Signore, ed è il Signore che la percorre. È questo che distingue il cammino religioso da qualsiasi altro cammino sapienziale, nel quale è l’uomo (sono io) il soggetto che percorre la via e giunge alla salvezza. Qui invece è il Signore della Via che percorre la Via, che io semplicemente preparo elimi­nando in me le asperità: eliminando io, che è appunto il burrone, l’a­sperità che rende la via impervia e tortuosa. La contraddizione della storia, contemporaneamente sede del tempo e della vicenda che pone fine al tempo, è anche contraddizione dell’io, che è terreno della Via e ostacolo da eliminare: già in queste prime parole del Vangelo si adombra il mistero della croce, che è sacrificio totale e definitivo dell’io e riscatto dell’essere. Ciò’~ possibile solo perché è il Signore che percotre la Via ed è la salvezza di Dio quella che ogni uomò vedrà: la religione’ è tutt’aitro dall’umanesimo.

A questo livello l’identità con il messaggio buddista è totale, e non potrebbe essere altrimenti: solo chi ignora tutto del buddismo come religione può pensare che si tratti di una visione egocentrata, in cui ciò che conta è la realizzazione di sé. Il buddismo è, in modo inequivocabilmente esplicito, la religione della rinuncia all’io: rinun­cia non dettata da considerazioni moralistiche, ma dal riconosci­mento della natura autentica della realtà. In quella che, secondo me, è una della più semplici e belle definizioni della Via buddista, Do­ghen afferma:

«Apprendere la via autentica (di Budda) è apprendere se stesso. Apprendere se stesso è dimenticare se stesso. Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose. Essere inverato da tutte le cose è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso e corpo e spirito altrui. È risveglio che riposa da ogni tractia di se stesso, è risveglio che perpetua il non lasciare traccia di se stesso».[2]

Questa è la conversione: passare da una visione in cui, bene o male, al centro ci sono sempre io, con la mia fame e sete di guadagno a vari livelli (camuffata non di rado da fame e sete di perdita) a una visione in cui io non c’è più, perché lascia il posto al Signore della Via, che non è contenibile nei panni di un singolo io, nella prospettiva della visione dell’io.

Giovanni il Battista lo dice chiaro: non è l’uomo che si converte, nel senso che la conversione non è il frutto di un calcolo umano volto a ottenere benefici. È Dio che converte l’uomo, nel senso che l’uomo si abbandona, abbandona se stesso e si lascia attirare: questo è il battesimo di conversione.

jiso

[2] E. DOOHEN, Divenire l’essere, EDB, 19.

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