Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’ era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti. Alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti».
* Nel vortice della realtà: beati voi!
Il Vangelo di oggi grida quattro volte: «Beati voi!», e quattro volte: «Guai a voi!». Beati e guai sono diretti allo stesso voi. Quel voi è ogni uomo, è ciascuno di noi, destinatario di beatitudine e di infelicità. Dove si diramano le due strade?
«C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente». Gesù grida Beati e Guai mentre è nel bel mezzo della folla che lo spingea destra e a sinistra. È in mezzo alla folla, ma nello stesso tempo è appartato in se stesso e guarda la folla con gli occhi di Dio. Gesù riesce ad abitare nel bel mezzo di tutti i condizionamenti e nello stesso tempo rimanere libero. È da questo coinvolgersi e contemporaneamente recuperare sempre se stesso che scaturisce il Vangelo. Così il nostro cammino deve essere un alternarsi saggio tra coinvolgimento nella realtà e recupero continuo di se stesso. È in questo campo magnetico originato dall’alternarsi fecondo tra vita e ricerca spirituale, tra Vangelo e zazen, tra lavoro e studio, tra silenzio e parola, tra momenti individuali e momenti sociali che si mette in azione il dinamismo delle beatitudini. Come il terreno di un campo dove si alternano l’opera faticosa dell’uomo e quella gratuita del cielo con pioggia e raggi del sole.
«Alzàti gli occhi verso i suoi discepoli»: i discepoli di Gesù visti dalla parte degli scribi e i farisei, gli esperti della religione, erano dei mediocri. I discepoli dei farisei e quelli di Giovanni il Battista avevano ricevuto dai loro maestri norme ben precise per pregare e digiunare, quelli di Gesù sembravano più nomadi che consacrati alla religione. Visti poi dal mondo erano degli stolti, seguaci di un uomo senza potere. Non avevano il rigore dei gruppi religiosi ben organizzati, quelli che contano e si fanno rispettare; nemmeno avevano il fascino dei gruppi del mondo. Ma proprio perché bocciati sia dalla religione che dal mondo, erano il campo adatto per accogliere le beatitudini del Vangelo. Infatti le beatitudini nascono dalla vita e risuonano là dove la vita non è artefatta o corazzata. Come nelle radure incolte fioriscono i rovi che maturano le more saporite.
«Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati». Proviamoci a pensare come questa beatitudine sia ascoltata da chi è soltanto dedito alla religione. Senz’altro suona come una frase profana, non sufficientemente spirituale: infatti tratta del pane da mangiare con la bocca, e non delle finezze dello spirito. Non è indirizzata agli oranti e ai praticanti, ma alle persone che adesso hanno fame e che sono emarginate perché incapaci di farsi valere. Le parole di Gesù non lasciano dubbio: la beatitudine è promessa a tutti gli affamati, compreso quello ateo; non è diretta all’uomo spirituale, se questi è ricco e ha la pancia piena.
Proviamo ora a pensare come la beatitudine sia accolta da chi è soltanto dedito al mondo. Risuona come una frase oscena: infatti non ingaggia nessun socialismo scientifico che operi quella rivoluzione che efficacemente giri il pane accumulato dalle case dei ricchi ai tuguri dei miseri. Non mette in piedi nessun sistema politico, né alcuna diplomazia. Perché dire beato un bambino che muore di fame al margine della strada di una qualche bidonville del Terzo Mondo?
È la certezza, basata sulla fede, che Dio è solidale con il nostro dolore a dare fondamento alle beatitudini: «Beati voi che ora avete fame!». Dio ha fame negli affamati, sete negli assetati; è sofferente negli oppressi, incatenato nei carcerati, condannato nei peccatori. Non ci sarebbe nessuna beatitudine dell’affamato e del sofferente, se Dio non fosse presente nella sua fame e nel suo dolore. Ma Dio è solidale e si fa garante delle beatitudini: «Beati voi!». Lo zazen è silenzio composto, sveglio e fiducioso di fronte al mistero di esistere qui, ora. Comunica con la croce. Bisogna far tacere tutte le voci per ascoltare quel «Beati voi» che viene pronunciato dal Figlio di Dio che muore e risorge. Con lui anche noi moriamo e risorgiamo. È così facile fraintendere quei quattro «Beati voi», che il Vangelo, per proteggerli, li ha circondati con la siepe di quattro «Guai a voi!», come quattro anticorpi che difendono la salute da ciò che l’aggredisce.
p.Luciano
* Un altro mondo?
Il panorama che ci mostra il Vangelo di questa e delle prossime due domeniche appare a prima vista come il panorama di un mondo diverso dal nostro. Sembra la descrizione di un mondo a rovescio, rispetto ai parametri con cui siamo abituati a considerare la realtà. Il buon senso è messo in discussione: qui si afferma che i poveri, gli affamati, quelli che piangono e quelli che sono odiati e perseguitati sono in realtà beati; mentre i ricchi, i sazi, quelli che ridono e quelli che sono apprezzati da tutti sono in realtà i reietti. Noi, se ragioniamo nel modo che ci è stato insegnato fin da bambini e che ci viene proposto da tutti i modelli educativi, non esclusi quelli religiosi, pensiamo esattamente l’opposto. Pensiamo che i poveri, gli affamati, gli afflitti e i perseguitati sono i reietti che bisogna far uscire dalla loro condizione di infelicità, in modo che recuperino una condizione normale di parità con chi è più fortunato. E pensiamo che i non bisognosi, coloro che apprezzano la vita e lo stare al mondo, quelli che tutti giudicano in modo benevolo perché si fanno amare, sono i beati che, partendo da una condizione di sicurezza che elimina l’ansia della sopravvivenza, possono allora occuparsi delle cose dello spirito e sondare i perché della vita e della morte. Noi pensiamo così, e lo pensiamo in un modo talmente radicato e profondo, che leggendo le parole del Vangelo di oggi siamo subito spinti a pensare che ci sia un trucco, o che siano le parole di una favoletta morale. Proviamo invece a chiederci direttamente: perché beati i poveri, gli affamati, gli afflitti,i perseguitati; e perché guai ai ricchi, ai sazi, a chi gioisce e a chi è benvoluto? Dove sta la beatitudine dei disgraziati e la disgrazia dei fortunati? È sadismo, masochismo, oppure è Vangelo, buona novella?
Gesù non guarda il mondo con gli occhi di un moralista, o di un sociologo, o di un educatore: guarda il mondo con l’occhio limpido che vede ogni cosa per quello che è, nel suo valore assoluto. E vede che il dolore è inseparabile dall’esperienza della vita: e l’esperienza della vita è l’unico accesso alla beatitudine. Ciò che conta non è trovare un sistema di vita che escluda il dolore o comunque ne limiti l’acutezza e la quantità, ma vivere l’esperienza della vita come porta di accesso allo sfondo che sostiene e abbraccia la vita in ogni sua forma: sfondo che è fatto di una pace più grande di ogni conflitto. Ecco che nella povertà si scopre l’accesso al Regno più grande di qualunque ricchezza; nella fame si assapora il cibo che sazia oltre ogni digestione; nelle lacrime sboccia il sorriso che è oltre il pianto e il riso; nell’offesa, nella persecuzione ricevuta a causa della ricerca del vero, è contenuto il riconoscimento di combattere per una causa più grande di qualunque umana diatriba. Il senso di appagamento che dà la ricchezza, materiale e spirituale, rischia invece di soffocare l’anelito a ciò che è oltre il contingente e le sue contraddizioni; la sazietà che coincide con la soddisfazione dei bisogni, termina quando finisce la digestione del nutrimento; il riso che oggi ci allieta porta con sé la promessa del pianto; la fama, la stima del mondo, è una
banderuola al vento, su cui non si può fare affidamento.
Questo non significa che allora dobbiamo considerare la povertà, la fame, il pianto, il disprezzo degli uomini valori in sé: ma neppure la ricchezza, la sazietà, la gioia, la stima. L’afflizione è afflizione, di essa non ci si rallegra: Gesù stesso, sulla croce, non era allegro, soffriva; di fronte all’amico Lazzaro morto, piange, non gioisce. Quando è il momento di piangere, piangiamo. Così quando è il momento di ridere, di essere felici, ridiamo e siamo felici, senza sentirei in colpa. Il discorso evangelico non fa ostacolo a questo. Semplicemente, parla di altro. La beatitudine è tutt’altra cosa, rispetto all’alternarsi del dolore e del piacere.
La beatitudine è quel rapporto con la propria vita che consiste nello scoprire che ogni attimo, ogni singolo istante, riposa nel seno amorevole e sconfinato della vita eterna che tutto sostiene: una volta instaurato, quel rapporto non si esaurisce più, perché non è condizionato da crescita e da esaurimento. Però, quel rapporto si scopre e si instaura solo perdendo tutto, passando attraverso il nulla che rigenera, la perdita di ogni altro rapporto condizionato. Per questo è beata la povertà e non beata la ricchezza: perché la ricchezza appaga e impantana nel relativo e nel condizionato, e alimenta la paura di perdere, mentre la povertà è già perdita che predispone all’ultimo salto oltre le apparenze.
jiso
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