* uomo e creato
una benedizione
Bernardo Antonini
da Servitium (rivista dei Servi di Maria), numero di Luglio-Agosto 2007
Benedire è come vivere e maledire come soffocare la vita. Benedire non è semplicemente compiere un gesto o un rito, e tanto meno un evento magico: è invece riconoscere l’esistenza e la vita, accoglierla e fecondarla e, in questa esperienza, per chi crede, anche Dio è complice. Scriveva padre Turoldo a mons. Tonino Bello: «Vorrei ringraziarti perché non benedici mai, ma dici bene di tutti i poveri».
La benedizione ha la stessa sorgente della vita e lo stesso orizzonte. Nella mia vita ho avuto molto presto motivo di allontanarmi dalla famiglia. Com’era consueto un tempo nelle famiglie contadine, i convenevoli della partenza erano sobri, a volte perfino austeri. Ogni volta che partivo, mio padre (e così fino a quando, secondo lui, ero diventato una persona importante) salutandomi, mi diceva: «Comportati bene [fa’ puìto, in dialetto]». Era questa la sua benedizione, il viatico che mi ha accompagnato per tutta la vita; è stato lui, con il suo silenzio e la sua fatica (dall’alba al tramonto, salutato dalla stella boara!) a custodire la mia fragilità e perfino la mia fede.
Non oso inoltrarmi nell’intrico delle distinzioni e delle precisazioni; mi basta pensare che la benedizione è una modalità fondamentale dell’esistenza, ha bisogno di piccole cose o di grandi gesti, di parole forti o suoni dolci e perfino del silenzio o, forse, la benedizione non ha bisogno di niente. La radice del benedire è così profonda che, nell’emergere in segni visibili, rischia di snaturarsi nei recinti rigidi del sacro o nel fascino ambiguo della magia. Difficile dire quando e forse neppure serve. È certo, però, che benedire o essere benedetti esige un’apertura totale alla vita, una complicità esplicita nel rischio, una prodigalità gratuita e folle che solo la nostra consapevole debolezza può trasformare in dovere.
Ricordo quando da bambino partecipavo alle Rogazioni (ovviamente anche come mocolo cioè chierichetto) e mi stupiva quella fila di contadini oranti e quelle croci sparse a segnare la fecondità della terra. Loro, i contadini, lo sapevano che la terra è feconda (anche di fatica), che il sole e la pioggia e la neve sono la benedizione di Dio, anche senza le processioni e l’aspersione del prete, ma sapevano anche che bisogna vigilare sulle astuzie del maligno e sulla fragilità del vivere nostro e di tutte le creature.
Benedire o maledire sono parole entrate nel tessuto profondo della lingua e della storia, confinate magari poi in significati tenui o marginali, e tuttavia un poco conservano sempre il sapore della radice che le ha generate. La benedizione può assumere modi assai diversi ma, nell’esperienza umana e nella storia della cultura, essa rimane una categoria essenziale che dà fondamento alle relazioni ed è da esse fondata, mentre delle relazioni mantiene tutta la ricca complessità e la fragilità che sempre minaccia la vita. Forse, anche per questo, alla esperienza della benedizione si accompagna quel sottile filo di magia, secondo il quale, sempre e quasi meccanicamente, il benedire deve generare fecondità e vita. A volte però questo filo o viene spezzato da una abitudine superficiale o oltrepassato verso recinti arbitrari di sacralità, dove la benedizione entra nella spirale della ritualità e della mistificante dipendenza sacrale. Onestà intellettuale e analisi rigorosa sono la garanzia per poter evitare sia giudizi frettolosi come pure abbandoni incondizionati, liberi dal timore di arrivare a lambire anche recinti ritenuti inviolabili. Forse, sarebbe qui opportuno chiamare in causa il sacro (o il santo), non per solidificare una distinzione – anche spazio temporale – che attraversa in modo ambiguo tutta la storia dell’umanità, ma per arrivare a cogliere nella profondità del creato, e non dall’esterno, la sacralità dell’esistenza di ogni essere che la benedizione riconosce e di cui si prende cura. È in tale contesto che Francesco può benedire Dio per e con tutte le creature, perché sono esse stesse, per prime, le creature di Dio. Perfino la morte, quasi creatura di Dio, è benedetta e Dio per essa, sorella nostra. Anche per questo il Figlio dell’uomo ha potuto aver fame e sete, essere malato e prigioniero, violentato e ucciso. E quanto ha bisogno questo nostro tempo – come sempre del resto – di riscoprire la capacità di benedire ed essere benedetti, come intreccio universale di mani a cura di ogni debolezza umana (e perfino di ogni malvagità!) e sostegno indefettibile di sogni e speranze.
Non dobbiamo mai dimenticare che Dio bene-dice, dice bene di noi, da sempre, da quando la terra gli ha concesso di lavorare con le sue mani il nostro corpo e di dipingere con il suo soffio il nostro sorriso: da questo gesto benedicente delle mani di Dio nasce la sua promessa, garantita in partenza al di là di ogni merito, perché la benedizione di Dio è per sempre. Così la benedizione conserva tutta la sua carica simbolica del nostro modo di essere nel riconoscimento amorevole degli altri e nel sentirci complici e solidali con loro. Parole, gesti, atteggiamenti, perfino il silenzio, tutto può essere sintetizzato nel nostro bisogno-desiderio di benedire e, nella consolazione e gioia, di essere benedetti.
Anche noi, gli uomini tutti, e per loro vocazione i cristiani, devono essere capaci di testimoniare l’azione benedicente di Dio e per questo benedirlo.
La benedizione passa attraverso di noi, perché noi siamo le mani di Dio sul mondo. Solo in questo senso si può rivelare ancora una volta la sacralità del mondo, cioè redimerlo dalla contaminazione e riconoscere ovunque (nelle persone prima di tutto e poi nelle bestie, nella terra, nel cielo, negli oggetti) segni di comunione con la vita senza fine. Niente nella nostra vita, nella vita dell’uomo, è neutro, se passa attraverso la santità del vivere (paradossalmente anche nelle sue forme distorte) che altro non è che uno dei canali della vita stessa. Noi sappiamo che nulla si perderà e per questo dobbiamo guardare bene tutto e dire bene di tutto. Tuttavia, bene-guardare e bene-dire non significa affatto essere ciechi di fronte all’uso distorto o malvagio di cose o persone. È invece credere che l’impossibile accadrà, perché nell’arcobaleno dell’alleanza i colori di Dio sono mescolati ai colori dell’uomo. Come a Giobbe anche a noi, a volte, capita di maledire la vita, il passato e finanche il futuro, perché non sempre è facile, soprattutto sul piano psicologico ed emotivo, trovare nel profondo quell’armonia che ci consente di fare pace con il rischio di maledire.
Forse una delle benedizioni più diffuse nella storia e nel mondo è la benedizione del pane. Per i cristiani la benedizione del pane è un momento centrale della loro esperienza di fede (oltre che della loro celebrazione liturgica). Il pane benedetto non è solo cibo che nutre (anima e corpo), ma anche segno della vocazione di ogni discepolo a diventare, con la sua vita, pane per gli altri. Era antica usanza, specialmente nelle famiglie contadine, che il padre benedicesse il pane. A quel punto il pane benedetto (consacrato) non veniva separato e riservato solo ad alcuni, anzi si mangiava insieme e forse aveva perfino più sapore, perché era stato spezzato per tutti. Chissà se mai riusciremo a recuperare qualche cosa di questa ricchezza del pane benedetto (e poi assaporato prima di tutto con le mani) nelle nostre liturgie spesso così povere di partecipazione! (siamo forse ritornati prigionieri del tempio?).
Conosco una suora, molto gioviale e sapiente, che di tanto in tanto fa ancora il pane secondo la vecchia maniera di casa sua. Dopo averlo lavorato con le mani e quando la pasta è ancora fresca, prima di metterlo in forno, lo incide sopra a forma di croce con un dito ancora sporco di farina. «Si fa così, si deve fare così» dice, «sennò non cresce.» Chissà se è rimasto nelle parole di questa suora amica un filo di superstizione, ma, in fondo, se sulle cose e le persone non lasciamo con il dito il segno del nostro bene-dire, come potranno mai crescere?
Tutto ciò che appartiene al creato (anche l’uomo, anche il lebbroso, anche la morte) tutto benedice il Signore. Il canto di Francesco è la festa di tutte le creature, perché la loro realtà non è chiusa, perché il loro significato non è mai univoco e perché, come dice Tiziano Terzani, «la mia fine è il mio inizio». Le orme che l’uomo lascia, nello spazio e nel tempo, sono anche le orme di Dio, presente in ogni frammento di umanità. La grande benedizione di Dio è la creazione e la cura che egli ha del creato (Gesù di Nazaret è il segno più alto di questa cura). L’uomo è una benedizione di Dio, l’uomo a sua volta benedicente, in primo luogo verso il suo prossimo. Mi piace il modo paradossale in cui lo dice santa Maria Maddalena de’ Pazzi:
O amore del prossimo, da tanto pochi conosciuto! Si devono lasciare per il prossimo non solo le comodità dell’anima e del corpo, ma anche lo stesso Dio.
La nostra esperienza benedicente può essere guidata anche da forme rituali, ma forse ancora di più da fantasia creativa. I mille sguardi, la carezza delle mani, le lacrime degli occhi, il tumulto del cuore, il velo della sofferenza, il profumo degli unguenti. Come la donna peccatrice ricordata dai Vangeli, che onora (benedice) il corpo di Gesù con il balsamo profumato e la carezza dei suoi capelli. Quell’ampolla di alabastro profuma ancora e quella benedizione fiorisce in perdono e amore:
In verità, vi assicuro che in tutto il mondo, dovunque sarà predicato il messaggio del vangelo, ci si ricorderà di questa donna e di quello che ha fatto (Matteo 26). Come l’altra donna, l’adultera, per la quale Gesù trasforma in benedizione le pietre della maledizione:
Chi tra voi è senza peccato scagli per primo una pietra contro di lei (Giovanni 8).
Davanti al silenzio di Gesù la donna sente che la presenza di lui ha infranto il cerchio che gli accusatori le avevano creato intorno. Ma poi sente anche che la stessa presenza – che benedice e non condanna – la conduce a rompere un altro cerchio che era nella sua vita e nella sua anima e che lei sola, liberata dalla parola bene-augurante, poteva infrangere:
Neppure io ti condanno. Va’, ma d’ora in poi non peccare più (Giovanni 8).
E il peccato non poteva che riguardare il grande comandamento di spendere (perdere) la propria vita per gli altri, modo esclusivo per accogliere il messaggio del vangelo. Molte altre donne nella Scrittura sono presentate come testimoni della benedizione di Dio sul mondo: e come non ricordare l’incontro fra Elisabetta e la Madre di Gesù? La benedizione con cui Elisabetta risponde al saluto di Maria, venuta a trovarla, diventa una benedizione per tutte le donne: «Dio ti ha benedetta più di tutte le altre donne, e benedetto è il bambino che avrai!». Intanto, dalla profondità delle viscere delle madri, i bambini danno vita a una danza di gioia, preludio della grande passione. In quella danza si rinnova la promessa, perché Dio
non può dimenticarsi di essere misericordioso verso Abramo e i suoi discendenti per sempre (Luca 1).
Anche per chi non ha fede può avere senso sapere che Dio benedice tutte le creature e aspetta, come dice Isaia (30, 18) «per farci misericordia». E ancora Isaia (64, 7):
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