In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”. Egli è colui che fu annunziato dal profeta Isaia quando disse:
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico. Allora accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente il Giordano; e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano. Vedendo però molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all`ira imminente? Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”.
* Il Vangelo prima del Vangelo
Il Vangelo della seconda domenica di avvento non è pronunciato da Cristo, ma dal suo precursore Giovanni il battista. E quindi il vangelo prima del Vangelo: il vangelo che introduce al Vangelo. Giovanni il battista lo proclama ai farisei e ai sadducei che chiedevano il battesimo solo per apparire religiosi, mentre non avevano veri sentimenti di conversione. Il vangelo prima del Vangelo dischiude l’orecchio a intendere il Vangelo. Il vangelo prima del Vangelo è importante per tutte le generazioni e per la Chiesa di tutte le epoche. Infatti il cristiano può conoscere mnemonicamente il Vangelo di Cristo, ma non aver ancora purificato l’orecchio che intende. «Chi ha orecchi intenda!» (Mt 13,43). I farisei e i sadducei sono semplicemente gli antenati di ognuno di noi quando usurpiamo il Vangelo che non abbiamo mai ascoltato dal cuore. Non l’abbiamo ascoltato dal cuore, forse perché ci fu imposto dalla tradizione o dalla consuetudine, senza averlo desiderato dall’esperienza della vita.
«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». I farisei identificavano il regno di Dio con le loro tradizioni di origine mosaica, con il loro culto sancito nel Vecchio Testamento, con il tempio di Gerusalemme su cui si era posata la nube della presenza di Dio. La sicurezza di costituire la vera religione non lasciava loro alcuno spazio di conversione. Il fatto di possedere le Scritture e la convinzione di essere il popolo eletto si erano trasformati in un motivo di superbia. Si ritenevano i detentori definitivi dell’opera di Dio.
«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate le vie del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Il vangelo prima del Vangelo è come il vaso che contiene il prezioso liquido della fede e lo preserva dalle contaminazioni della fretta e della presunzione dell’uomo. È il vaso dell’umiltà, l’unico atteggiamento vero e fecondo per accogliere la verità. È il vaso che contiene, ma il vaso stesso è già parte della verità contenuta. Come l’orecchio che ascolta il Vangelo è già parte del Vangelo. Ne è la parte che lo dischiude, come la porta è la parte della casa che dischiude a tutta la casa.
La presunzione di incontrare Cristo lungo un sentiero magico non raddrizzato attraverso il nostro sforzo religioso è la tentazione sempre latente in ognuno di noi. La fretta di pronunciare il nome di Dio o di sistemare le problematiche della società con delle sentenze in nome di Dio può sempre trasformare la Chiesa, soprattutto i suoi ministri, in mestieranti; a volte anche in inquisitori. È facile mettersi a fare da giudici sugli altri denunciando le loro incoerenze, forse raccogliendo applausi. La via a cui il Vangelo chiama la Chiesa è quella di percorrere lei il sentiero del deserto dell’autenticità. La Chiesa è chiamata a essere ciò che testimonia. «Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per Padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo anche da queste pietre». La Chiesa è vera quando il suo essere maestra è semplicemente il suo essere discepola visto dagli altri.
«Fate frutti degni di conversione»: è il cuore del Vangelo di questa domenica. Quanti spazi dove la nostra Chiesa è chiamata a portare frutti degni di conversione! In particolare uno è il recupero dell’aspetto del deserto nel cammino ecclesiale: più silenzio, più meditazione, più digiuno, più sobrietà nei mezzi usati per l’apostolato. La Chiesa riceve dal Vangelo la vocazione a essere piccola e semplice. Quella minorità così amata dal santo di Assisi, compresa come non predominio temporale nella società! Abbandoniamo i titoli con cui ci fregiamo, i privilegi che pretendiamo perché operiamo per il bene sociale, come se questo fosse qualcosa in più del dovere ordinario di ogni uomo ordinario. Il deserto significa soprattutto una forma mentis umile.
È lo Spirito che annuncia il Vangelo. Alla Chiesa invece spetta annuciare il vangelo prima del Vangelo: gli atteggiamenti di vita che dischiudono all’ascolto del Vangelo. L’uomo guarda alla Chiesa non tanto per comprendere Dio attraverso i suoi insegnamenti; ma scruta la sua umanità per scoprire gli atteggiamenti propri dell’uomo di fronte a Dio. Questa è la testimonianza che ci hanno lasciato gli apostoli nei Vangeli: come ci si accosta a Dio. Per questo i testi evangelici, così sobrii nel descriverci Dio che «nessuno mai ha visto» (I Gv 4,12), abbondano nel narrarci l’umanità degli apostoli alla sequela di Cristo, con le loro contraddizioni. Gli uomini aspettano di vedere l’umanità della Chiesa che si converte a Cristo: il suo annuncio del vangelo prima del Vangelo. Sentiamo riconoscenza che gli uomini abbiano profondo interesse al sentiero che è la Chiesa! Calpestandolo, lo rassodano e lo rinnovano. Se i passanti non lo usassero, ben presto il vento lo farebbe sparire sotto la sabbia.
p.Luciano
* Nuvola e acqua
Unsui (nuvola e acqua) è il nome che viene dato ai monaci Zen: nuvola e acqua, perché sono (anzi, erano) soliti andare leggeri e scorrevoli di monastero in monastero per seguire l’insegnamento e la disciplina con cui vari e differenti maestri impostavano la vita delle proprie comunità. Trascorrevano periodi stabiliti di tempo in un monastero, seguendo in tutto e per tutto la regola di quel luogo, poi andavano altrove, per non fossilizzarsi in uno stile particolare e per uniformare la propria esistenza alla legge eterna del mutamento e dell’insicurezza. Due monaci Zen, Hoon e Ghie (siamo in Cina nel V secolo) fecero quasi duemila chilometri a piedi per andare in un monastero di cui era abate il maestro Kisu, famoso per la sua dedizione alla Via. Giunsero sfiniti, insieme ad altri giovani monaci a loro volta reduci da lunghi viaggi. Subito il maestro si mise a gridare a tutti di andare via, insultandoli. Poi li prese a secchiate d’acqua gelata (era l’inizio dell’inverno). Gli altri monaci offesi se ne andarono: Hoon e Ghie si asciugarono alla meglio e si sedettero in zazen, pensando che non avevano fatto tutta quella strada per farsi scoraggiare, anche se l’accoglienza era stata fredda! Kisu allora prese a colpirli con il bastone. Ma i due gli dissero: «Per noi veni venire qui è un’esigenza in cui mettiamo in gioco tutto. Ci puoi anche ammazzare, ma non ce ne andiamo». Il maestro li accolse ridendo nella comunità.
Colpisce in questo aneddoto, che è una storia vera e che rispecchia una prassi tuttora in uso nei monasteri Zen, il fatto che il maestro si adoperi non a cercare di convincere i giovani monaci a fermarsi da lui, a seguire il suo insegnamento, ma a dissuaderli, a cercare di farli andar via. Una sola cosa lo preoccupa: che quelle persone sappiano davvero quello che fanno, che siano messe subito di fronte al carattere della via che dicono di voler seguire: una via che si inoltra nel deserto. Giovanni battista e Kisu parlano la stessa lingua e dallo stesso luogo: il deserto. Nasciamo soli, moriamo soli, camminiamo soli: soli, nel senso che nessuno può farlo al nostro posto. La nostra unicità è il nostro deserto e, nello stesso tempo, il segno dell’unità di ogni essere.
Giovanni battista e Kisu stanno dicendo che la via inizia nel deserto e in esso si inoltra. La pista del deserto non è la strada sicura che siamo abituati a percorrere, è una strada battuta dal vento, che il vento modifica, per ognuno diversa e unica, dove non restano i ricce: se non la voce che chiama, che invita ad avanzare da dentro al deserto. Chi crede di avere dei titoli che lo precedono sulla via, chi non sa che il deserto rende tutti uguali e riveste ognuno di vento, chi pensa che inoltrarsi nel cammino sia un merito e un privilegio, non ha che idee errate sulla vera natura della pista del deserto. Meno male che Giovanni e Kisu ci avvertono dalla soglia.
Jiso
* Nel deserto rifiorisce la vita
Il deserto, spoglio della vegetazione, è il luogo in cui nulla si frappone fra la nuda terra e il cielo; nel deserto manca il cibo, l’acqua, il riparo fresco di un albero frondoso. Anche noi, nella nostra vita, sperimentiamo il deserto quando siamo provati da una sofferenza, fisica o interiore, talmente intensa che nulla e nessuno può esserci di conforto. In quel momento tutte le cose belle a cui davamo importanza e gli stessi affetti passano in secondo piano, spazzati via da quella sofferenza che ci spinge a scoprire la solitudine, a entrare in noi stessi. Prima eravamo simili ad un albero compiaciuto per la ricchezza e la bellezza della sua chioma, distratto dal canto degli uccelli che volentieri facevano il nido sui suoi rami; ora siamo simili a un albero che, a causa delle intemperie, è improvvisamente privato di tutto: dei rami, delle foglie, degli uccelli, e che, ritirandosi in se stesso a causa della vita che lentamente defluisce, si accorge della preziosità delle sue radici, di cui si era dimenticato, che col loro lavorio silenzioso gli davano vita e lo sostenevano.
Nel deserto noi siamo ricondotti alla nostra essenza, alla nostra origine, a quel punto di partenza, prezioso e nascosto come la radice degli alberi, di cui avevamo perso consapevolezza. E se una sofferenza così intensa non ci richiama a entrare profondamente in noi stessi? Rischiamo di vivere invano, in modo superficiale, attenti all’esterno, sollecitati dagli stimoli che il mondo continuamente ci offre, mai completamente soddisfatti e appagati, o, usando un termine che si usa frequentemente e non sempre a proposito, stressati.
Giovanni ci richiama a entrare nel deserto ora, in questo preciso momento, a scoprire la nostra radice permettendo che da essa possa svilupparsi un albero nuovo, meno compiaciuto di sé, meno distratto dall’esterno, ma più solido, in grado dunque di sopravvivere alle intemperie.
Abbattere il vecchio per costruire il nuovo nel deserto, cioè nella solitudine e nel silenzio interiore, avendo il coraggio di guardarsi per quello che si è, senza aggiungere o togliere nulla: questa è l’attualità dell’insegnamento di Giovanni. Ma sbaglieremmo se pensassimo che questo si possa attuare una volta per tutte: sempre dobbiamo essere disposti a morire per rinascere; per tutta la vita siamo chiamati a preparare la via al Signore che viene.
Annamaria Tallarico
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