In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
* Una chiesa che attrae nel silenzio
Giovanni aveva scommesso tutto in nome della convinzione che coltivava dentro di sé. Era in carcere, per aver avuto l’audacia di biasimare il comportamento del re Erode. Noi ora ammiriamo il suo coraggio, come quello di tutti i martiri; ma Giovanni non sapeva nulla dell’onore che la storia gli avrebbe tributato e nemmeno gli importava, perché lui attingeva alla sua convinzione e basta.
Giovanni manda i suoi discepoli a interrogare Gesù se egli sia il Cristo. Uomo forte, non si riteneva un arrivato e non presumeva di avere esaurito la conoscenza del Messia per il fatto che svolgeva il ruolo di suo precursore. Era forte invece proprio grazie al fatto che si sentiva nel dubbio che spinge a ricercare: quindi sempre aperto a scoprire quello che è opera di Dio nella storia. Giovanni incontra Cristo perché una forza interna lo spinge a cercare. Questa spinta è il vangelo che precede il Vangelo. È il campo dal terreno buono disposto ad accogliere il seme buttato dall’alto e a farlo fruttare il cento per cento. Gesù dirà: «Nessuno può venire a me se non gli è concesso dal Padre mio» (Gv 6,65). Il vangelo prima del Vangelo è l’opera del Padre universale che rivela all’uomo il Figlio come impostazione fondamentale della vita, prima di rivelarlo con un nome storico.
Giovanni è il simbolo della Chiesa: «Egli è colui, del quale sta scritto: “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via”». La Chiesa, come Giovanni, è il dito che indica il regno di Dio, il messaggero che prepara la via al regno. Il lavoro di preparare la via è serio e faticoso. Bisogna colmare le valli e abbassare i monti. Bisogna rafforzare il terreno che cede e bisogna tagliare la parete rocciosa per aprire il passaggio. Un giorno Giovanni aveva detto di se stesso: «Egli (Cristo) deve crescere e io diminuire» (Gv 3,30). La caratteristica del messaggero è quella di essere protagonista quando il suo servizio lo richiede, e sapersi ritirare quando la sua opera non serve più, contento che non serva più. L’uomo che accosta la Chiesa deve percepire questo offrirsi e poi questo ritirarsi. L’offrirsi esige il ritirarsi e il ritirarsi esige l’offrirsi. Quando ai genitori è dato di constatare che la loro presenza è diventata inutile per i figli, ciò per loro è grande onore; ugualmente lo è per la Chiesa quando può constatare che la sua opera di guida alle persone è diventata inutile. Infatti inutili si diventa quando è stato dato tutto. Cristo all’ultima cena, dopo aver consegnato il suo corpo e il suo sangue, dichiarò che era bene per gli apostoli che egli partisse e facesse ritorno al Padre. «Ora vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada» (Gv 16,7). Si sentiva inutile, perché aveva trasmesso tutto.
«Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento?… Un uomo in morbide vesti?… Un profeta? Sì, vi dico, anche più che un profeta». Fa meraviglia che la gente lasciasse le case e i villaggi circondati dal verde per recarsi nel deserto, attratti dalla figura di un asceta. La Chiesa è chiamata a essere così: una forza che convince il mondo a uscire dalle sue comodità e a inoltrarsi nel deserto. II deserto è il cammino della fede. La Chiesa deve attrarre per la forza che scaturisce silenziosamente dal suo essere Chiesa. La Chiesa che attrae in silenzio! L’uomo d’oggi è alla ricerca della via dello Spirito, ma non sente interesse verso i nostri documenti; ricerca invece il silenzio, il silenzio autentico, non riempito ancora con parole che spiegano il silenzio o che lo adornano, come tante veglie eucaristiche, dove l’unico che tace è Cristo. L’uomo d’oggi è alla ricerca del silenzio spoglio di tutto; vuole guardare in faccia al mistero dell’esistenza senza imbrogliarsi di nuovo con fuochi d’artificio. Come l’asceta sta nel deserto.
L’uomo d’oggi ci domanda di essere Chiesa, e non di apparire: meno programmi, meno spiegazioni, meno avvisi, meno racconti di testimonianze, meno documenti, meno recita di preghiere, meno comparse; ma più profumo che si espande spontaneamente dal nostro essere. La sobrietà del testo evangelico è di esempio. Quante cose noi ameremmo conoscere sul Signore, su sua madre, sugli apostoli, sulla Chiesa primitiva! Invece i testi sacri semplicemente tacciono. Il silenzio religioso è infatti il tacere le cose buone che vorremmo ascoltare o dire, e farne offerta gioiosa. Tacere è lasciare posto allo Spirito; è più rispetto del cammino di ciascuno, e anche meno bramosia di successi spirituali. E’ accettare semplicemente come ovvio il fatto che siamo messi da parte come inutili; è sapere invecchiare con serenità e consapevolezza.
«Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». Queste parole di Gesù sono Vangelo purissimo che nessun altro maestro religioso ha mai pronunciato. Per essere il più piccolo bisogna essersi spogliato di tutto e non trattenere nulla.
Sotto il vasto cielo della notte buia della storia, la Chiesa sia la capanna dove Dio dorme sulla paglia! Anche i sapienti dell’oriente verranno ad adorare.
p.Luciano
* Versare tutta l’acqua del un recipiente ad un altro
Nella tradizione spirituale dell’oriente, nel buddismo e in particolare nello Zen, la relazione da persona viva a persona viva, la relazione fra maestro e discepolo, rappresenta uno dei cardini su cui poggia la porta d’ingresso della via. Ascoltiamo a questo proposito le parole di Doghen:
«A partire dal fondatore del buddismo, Sakyamuni, tutti coloro che hanno vissuto vedendo chiaramente il giusto modo di esistere, mentre hanno continuato a trasmettere da una persona che aveva realmente quel carattere a un’altra che a sua volta lo possedeva, hanno testimoniato quel modo di vivere perfettamente armonioso. Non vi è che un modo supremo al di là delle possibilità della nostra volontà, che è base e fondamento di quel modo di essere. Questo modo è come versare tutta l’acqua di un recipiente così come è in un altro» (Il cammino religioso – Bendówa).
Avvenuto il travaso, il contenuto travasato assume la forma nuova del contenitore che lo riceve. Noi distinguiamo contenitore e contenuto per necessità di linguaggio, ma in realtà non c’è separazione così come non ce n’è fra la vita e l’essere vivente. La forma nuova del contenitore è anche il rinnovamento totale del contenuto: in questo senso ogni vero discepolo è più grande di ogni vero maestro. Se il discepolo non diviene più grande del maestro, la via ristagna e il rapporto diventa dipendenza e tirannia. Guai se il maestro non si augura con tutto il cuore che il suo discepolo (ogni suo discepolo) diventi più grande di lui, guai se il discepolo alimenta la falsa modestia per cui non vuole e non può diventare più grande del maestro. Non c’è nulla di personale e di meritorio in questo, è un’esigenza intrinseca della via, della vita stessa. «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30). Quando sediamo immobili in silenzio, abbandonando noi stessi alla via dell’essere autentico, così come ci è stato trasmesso, noi siamo più grandi di Budda. Se non abbiamo l’umiltà di credere in questo, non rendiamo onore alla via che Budda stesso ci ha indicato. Giovanni, il più grande dei nati di donna, è più piccolo del più piccolo discepolo del suo discepolo, Gesù. Questa dinamica della trasmissione da persona a persona è ciò che rende vivente la tradizione di una via che in ognuno comincia da capo e in ognuno si realizza e completa.
Jiso
* La verità è prima del pensiero
Se, nella lettura del Vangelo, ci lasciamo guidare dalla luce della nostra mente, finiamo con l’imbatterci in messaggi contraddittori che ci spingono in un vicolo cieco dal quale ci sembra di non poter uscire.
Nel Vangelo di questa terza domenica di avvento ci viene presentato Giovanni che, dal carcere in cui è rinchiuso, invia i suoi discepoli a Gesù per chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?». Da un punto di vista razionale questo dubbio di Giovanni appare quanto meno sorprendente: nella capanna di Betlemme erano accorsi i pastori prima e i magi dall’oriente poi, assolutamente certi che quel bambino appena nato fosse il Messia che doveva venire. Giovanni, che col suo insegnamento aveva preparato il momento in cui Gesù si sarebbe manifestato agli uomini, chiede però se quel giovane, che aveva personalmente conosciuto, di cui si stava diffondendo la fama, fosse proprio colui che doveva venire.
In realtà, se, entrando in noi stessi, ci sforziamo di leggere questo episodio con gli occhi non della mente, ma dello Spirito, ci accorgiamo che questo dubbio di Giovanni ha un grande significato. Esso infatti indica lo scarto fra ciò che si percepisce e ciò che è. Un esempio può aiutare a comprendere meglio: io posso essere certa che quel fiore, che vedo davanti a me, sia una rosa solo se esiste una precisa corrispondenza fra quello che quel fiore è nella realtà e l’idea di rosa che la mia mente ha costruito grazie all’esperienza e alle conoscenze. Se però le mie conoscenze sono errate o incomplete molto difficilmente può realizzarsi questa corrispondenza e io dirò, partendo da quello che la mia mente suggerisce, che quel fiore forse non è una rosa.
La verità dunque è prima del nostro pensiero. Come è difficile, nella nostra vita, dare il nome corretto alle cose! Quanto raramente riusciamo a vedere la realtà così com’è! La Verità (con la V maiuscola) di cui spesso si parla nel Vangelo è proprio ciò che è vero nella sua essenza, senza che nulla sia tolto o aggiunto: è la rosa così com’è, al di là del fatto che noi le attribuiamo questo o quel nome.
Quel fiore davanti a noi è autentico, reale, indipendentemente dal fatto che noi lo riconosciamo come rosa oppure no; ma se non stiamo attenti rischiamo di ritenere vero non quello che è, ma quello che ci appare. La strada per approdare alla verità, che è vedere le cose così come sono realmente, appare quella di purificare la mente. È infatti rinunciando alle nostre sicurezze, alle nostre piccole verità, che possiamo sperare di approdare alla grande Verità, semplice ed eterna, che siamo in grado solo di intuire, di sperimentare, che la nostra mente non potrà mai totalmente possedere e che tuttavia ci attira a sé, come alla nostra vera casa. Verità che non cambia col passare dei tempi e delle mode.
Annamaria Tallarico
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