E come Mose innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.
* Il pensiero divino di fa carne: la natura dell’amore
QIl nuovo annuncio del Vangelo all’umanità è qui: Dio non è l’Assoluto, come molte religioni hanno insegnato, ma è la Relazione. Messaggio, questo, di una portata enorme, di un influsso dirompente sul senso dell’esistenza: l’uomo non finirà mai di sondarne la profondità. Intercorre una incommensurabile differenza fra il credere in Dio come essere assoluto, e in Dio come relazione. Il Dio assoluto non dialoga, perché non ha altro da sé a cui rivolgere la parola; Dio che è relazione, invece, è dialogo fin dal midollo della sua essenza divina. La fede nel Dio assoluto irrigidisce il cuore; la fede nel Dio che è relazione mette anche noi in relazione, in cammino, in divenire. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna».
I teologi hanno tentato di esprimere con le parole del vocabolario umano la natura intima di Dio, che e relazione. Dicono pressappoco così: Dio, che nel suo intimo a relazione, da sempre dice Tu; e Tu che egli dice è così sincero, è così convinto, da essere vivo: è una persona che sta davanti a Dio con la stessa dignità di Dio. Dio da Dio, è Dio con Dio! E il Figlio di Dio; è l’ideale di Dio, è il Logos. E’ l’Unigenito! L’uomo può generare figli con l’aspettativa che questi in futuro restituiscano prestigio e guadagni al casato. Ossia, l’uomo può ancora ripiegare su di se ciò che genera; ma Dio, che fin dal midollo della sua essenza divina e purissima relazione, non contamina minimamente il Figlio che genera, non lo riassorbe dentro la sua paternità. Il Figlio suo è unigenito: è il Dio generato che sta davanti al Dio generante con la sua stessa dignità divina, ma senza ripetere o copiare nulla! E’ unigenito! Prendendo ancora a prestito dal vocabolario umano, i teologi dicono: è persona. Così in Dio, il Padre che genera, il Figlio che è generato e lo Spirito che unisce nella distinzione il Padre e il Figlio, sono tre persone divine. Dio non è, se non dando e ricevendo. Dio non è, se non nella relazione.
I teologi dicono pure che ogni tu che Dio dice, creando le cose, è porzione di quel Tu unigenito! Dicono ancora che il rapporto di Dio con ogni tu che egli genera e crea, avviene nello Spirito della carità, che e come il vento che protegge la vita della terra dai raggi potenti del sole, trasformandoli da raggi infuocati in raggi benefici. Ogni creatura, nel suo ordine, è pura, genuina; non ha nulla di ripetitivo, di copiato, di scadente. Tutto è originario. Questa e l’onnipotenza di Dio: la misteriosa capacità di dotare di autonomia, di libertà, di personalità le creature che pure sono in tutto sua creazione, tratte dalla sua onnipotenza. Tutto è intimamente da Dio e di Dio! Eppure tutto è costituito e rispettato come intimamente se stesso, libero, altro da Dio. Al punto che Dio gli si rivolge dicendogli tu, e non dicendo me, o dicendo Dio. Così, ciascuno di noi, in tutto creatura di Dio, e persona libera, è altro da Dio, è dialogo con Dio e non sudditanza.
L’essere relazionale di Dio è la base dello scorrere del divenire: tutto è creato dentro la relazione in cui il Padre e il Figlio si dicono Tu nello Spirito Santo. Ciò che nella deriva del tempo accade, tutto, da sempre, e già in essere in Dio. Ciò che è già in essere in Dio, per una legge intima al suo essere così, diviene. La fonte forma il fiume! Possiamo improvvisarci teologi e affermare che ciò che Dio Padre costituisce come eterna porzione dell’essere, Dio Figlio lo anima di vitalità di cammino, di storicità, trasformando l’essere in divenire. E lo Spirito Santo lega l’essere e il divenire nel mistero della carità.
Ciò che in me è in divenire, ciò che ora per ottenerlo mi costa lacrime e sudore, in Dio è già in essere. Ciò che io in questo divenire fatico a raggiungere, in Dio è custodito già come essere, a garanzia per la mia fatica. E’ custodito come porzione del Figlio unigenito. Quante volte ho desiderato ritirare o cancellare i propositi giusti fatti in precedenza; ma, pur volendolo ostinatamente, non mi fu possibile. Ogniqualvolta volevo distruggerne le tracce, avvertivo come una voce impellente che, penetrando da lontano fino nel fondo della mia anima, mi riconduceva alla memoria di ciò che volevo dimenticare. L’uomo può tentare di prosciugare il rigagnolo del proprio divenire, infatuandosi dell’essere; ma l’essere che è in Dio di nuovo vi riversa la corrente che diviene. Agostino scrive che l’uomo non può riposare finché il rigagnolo del suo divenire non sfoci nel mare dell’essere, in Dio. E siccome «Dio è amore» (1Gv 4,16), l’essere di Dio di nuovo rifornisce la corrente a tutti i rigagnoli. Dio non è univoco, non è assoluto: è tre persone divine distinte che operano sull’esistente sia il richiamo indelebile all’essere, sia l’attrazione irresistibile al divenire. E lo Spirito benedice tutto nella carità.
Proprio perché Dio nella sua memoria divina custodisce come perla preziosa il valore proprio di ogni uomo, per questo gli permette di vagare, di smarrirsi, di toccare fondo. L’uomo perde la sua via; ma Dio lo attende al valico del suo vagabondare, quando l’uomo comincia a percepire il suo errore e si apre all’ascolto. Quando l’uomo si mette in ascolto, Dio parla. L’uomo china il capo e crede. Per il grazie che il peccatore convertito proferisce sottovoce, nel cielo dell’essere c’è più gioia che non per novantanove giusti che non hanno mai sbagliato e non hanno bisogno di alcuna penitenza. E’ riconoscente, più umile, più comunitario! C’è il profumo della gratuità. Dio ci lascia errare, perché lui è già la garanzia che ci salva dal nostro peccato. La realtà è contraddittoria, perché Dio è già la sua redenzione all’armonia! I genitori naturali hanno un’audacia grande verso i figli, che i genitori adottivi. Non hanno nessuna popolarità da guadagnare; perché sono genitori e non c’è nulla da aggiungere alla paternità e alla maternità. Quindi con tenace pazienza attendono finché il figliol prodigo ritorni! Ritornerà! Dio ci lascia errare, perché noi siamo già suoi! Facciamo parte del suo Pensiero divino. Ognuno di noi è unigenito: ossia frutto di un Pensiero divino tutto unico che lo fa esistere. «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna».
Questo brano di Vangelo viene proclamato nelle domeniche di Quaresima, come invito alla conversione, perché la nostra salvezza in divenire, è domanda lacrime e sudore. Viene poi proclamato nella festa della Trinità di Dio, come garanzia divina che la nostra salvezza da sempre è in essere nel cuore di Dio che è amore. Ma dall’affermazione che Dio ama, l’uomo può ricavare tanto la Speranza e l’energia per vivere, quanto dedurre il senso di colpa per non poter ricambiare un così grande amore. Quell’affermazione, soprattutto se ripetuta fuori posto, può suscitare una specie d’allergia, una psicologia della reazione. Come quando in casa i genitori ripetono ai figli che stanno facendo mille sacrifici per loro, perché li amano.
Se è reale, l’amore di Dio in cui la nostra salvezza è in essere, altrettanto reale è lo smarrirsi dell’uomo, per cui la nostra salvezza in divenire. L’uomo spesso nasconde dentro di sé timori e complessi, per cui non gli e così semplice né immediato riconoscere la lieta notizia di essere amato. L’amore non si mette in mostra. Un amore ostentato, fosse anche a fin di bene, è un amore avvilito. Un antico proverbio diceva: Vivi credendo che tutto dipende da te, mentre sai che tutto dipende da Dio. Ciò che fai dentro le sponde della gratuità e dello sforzo, dell’essere e del divenire, è retto, e autentico! Dell’amore bisogna parlare con pudore.
Forse per questo e evocata la croce attraverso l’episodio del serpente di bronzo fatto innalzare su un palo da Mosè nel deserto. Chi veniva morsicato da un serpente velenoso, se subito fissava il serpente di bronzo innalzato sul palo, restava illeso. Rimanere illesi dal veleno del serpente guardando il serpente! E il simbolo e l’insegnamento della croce: l’uomo che porta la croce è salvato guardando in faccia alla croce. Che Dio ami il mondo è un messaggio da dire più tacendo che parlando. Conviene il silenzio davanti al mistero.
Sembra non esserci alcuna differenza tra l’affermare che Dio ama perché buono, o che ama perché e Dio. Invece la differenza sostanziale, tanto che il nostro rapporto con lui cambia completamente a seconda che uno creda in un modo o nell’altro. Passa la stessa differenza come tra una madre che ama perché si pensa buona e un’altra che ama semplicemente perché madre, nonostante i suoi limiti.
Se Dio ama perché buono, allora per lui amare è un atto virtuoso, è un’opera qualificante. Dio fa qualcosa che non è tenuto a fare, ma lo fa perché buono! Chi ama perché buono, amando, suscita nella persona amata l’obbligo della restituzione. L’amore, se è virtù, amando, comporta lo strascico del contraccambio. Sì, perché ama per bontà sua.
Ma Dio ama perché Dio. Non può non amare, perché Dio è amore. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». Per Dio, l’amare il mondo è dare il suo unico Figlio e semplicemente il suo essere Dio. Non è anzitutto un atto di compassione verso di noi, ma l’essere della sua natura divina.
Piuttosto che l’amore di Dio o dell’uomo inteso come atto della loro virtù o bravura, è immensamente più autentico l’amore silenzioso e nemmeno cosciente di un sassolino che sta sepolto nel ventre della montagna, ignorato da tutti; ma che comunque fa semplicemente il suo dovere di tenere su la montagna, dando il suo piccolo contributo insieme con quello poderoso delle rocce. Chi ama per bontà sua desidera amare in grande, facendo gesti eclatanti. Chi ama stando al suo posto, vuole solo essere se stesso: se è uomo vuole essere uomo, se è sassolino vuole essere sassolino. Chi dà il pezzo di pane al bambino affamato non ama di più del bambino affamato che stende la mano. Amare non ha rapporto con grande e piccolo, insegna Doghen riguardo la natura autentica. Lo zazen, pratica del silenzio del corpo e dello spirito in cui si sta seduti immobili e dignitosi senza guadagnare nulla, manifesta in modo evidente la qualità dell’amore religioso.
Dio ama il mondo e manda il suo Figlio affinché il mondo sia salvo semplicemente perché questo è il suo dovere, è la sua natura, è il suo cuore, è il suo posto. E il suo Logos. Il sole, illuminando e riscaldando le cose, non ricerca un ritorno dalla terra. Tuttavia l’acqua si scioglie e si eleva nel cielo. Il sole la riscalda e nuovamente piove sulla terra. E la carità! «Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
p.Luciano
* Non per giudicare
Una particolarità del Vangelo secondo Giovanni è, mi pare, quella di presentare Gesù così come parla nel cuore di Giovanni, molto più di quanto ciò non avvenga in ognuno degli altri evangelisti. Credo che ciò sia dovuto proprio al fatto che Giovanni è stato testimone oculare più vicino a Gesù, il discepolo che egli amava, come lui stesso si definisce: un ragazzo dal cuore ancora tenero, che si lascia plasmare senza fare troppa resistenza. Proprio per questo, passati gli anni, assimilate del tutto l’insegnamento e la testimonianza ricevuti, la voce di Gesù diviene voce intima, interiore, che parla per bocca dell’apostolo senza mediazione.
Giovanni ha sintetizzato il Vangelo di Cristo in un messaggio unico: Dio è amore, come scrive nella sua prima Lettera (1Gv 4,16). Questo messaggio e veramente nuovo, una rivoluzione rispetto al rapporto fra Dio e il mondo esemplificato nell’Antico Testamento. Certo, Dio ama le sue creature anche prima di Cristo: ma mostra un volto di giudice, che riprende e castiga per correggere. Gesù invece comprende e testimonia l’amore di Dio per il mondo come agape, l’amore-comunione: in Cristo l’amore di Dio per il mondo non si manifesta come giudizio del creatore sulla creatura, ma come donazione da genitore a generato. La differenza fra creazione e generazione a sostanziale: nella creazione creatore e creatura appartengono ad ambiti diversi, mentre nella generazione genitore e generato sono parte della stessa realtà. Nel comprendersi Figlio di Dio, Gesù fa entrare Dio a far parte del mondo: non più creatore-osservatore-giudice, ma parte integrante. L’unicità di Cristo (Figlio unigenito) non è esclusività, nel senso che è il solo Figlio: l’unicità di Cristo è come l’unicità di Dio, che e ovunque e ovunque riverbera: l’unicità di una comprensione di sé passando attraverso la quale ogni creatura diventa unicità generata.
Quel passaggio attraverso è l’amore che attraversa la morte. Infatti essere generato vuol dire essere predisposto a morire: nel comprendersi Figlio di Dio e non solo creatura divina, Cristo comprende la necessità della morte. La croce e necessaria, non è un disgraziato episodio: senza la croce l’amore resta un’intenzione, non diviene fatto. Credere che la croce è il fatto d’amore che rende il Figlio dell’uomo completamente Figlio di Dio è l’apertura che permette passaggio attraverso la morte e il giudizio. Chi crede in lui non e condannato. Il giudizio non è abolito, ma diviene intrinseco, viene dall’interno della vita stessa di ciascuno e non è più qualcosa che incombe dal di fuori. Lo spirito della fede libera da ogni condanna, perché permette di passare attraverso la croce della vita e della morte, comprese come braccia dell’amore; solo chi non crede si condanna da solo, perché non crede nel nome che abita dentro di lui e lo trasforma da creatura passiva in figlio che è partecipe.
Jiso