Omelia alla celebrazione eucaristica del Corpus Domini, con la presenza di molti universitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del piccolo gruppo di cattolici giapponesi della Cappellania giapponese di Milano.
25 maggio 2008, Basilica di Sant’Ambrogio, Milano
“Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. A queste parole di Gesù la maggior parte dei suoi discepoli lo lasciò. Probabilmente anche noi lo avremmo lasciato. Sì, perché anche per noi la carne e il sangue sono materia e non portano salvezza. La salvezza, pensiamo, è opera dello Spirito: ossia è ideale, è angelicità, è perfezione. Il corpo, piuttosto, è d’impedimento. Così la maggior parte delle religioni che prosperano nel mondo insegnano la ricerca del trascendente oltre i limiti della materia. La materia è solo creazione passiva da parte dello Spirito, è di qualità secondaria al riguardo dello Spirito. Quante volte anche noi, qualora il corpo ci faccia percepire la sua pesantezza attraverso la fatica, la stanchezza, la tentazione forse sessuale, noi vorremmo rifugiarci in una immagine solo spirituale di sé. Dispiaciuti della propria corporeità, diveniamo facile ambiente dove prospera la depressione. Allora ricorriamo ad analisi psichiche per trovare uno spiraglio da cui accedere alla condizione angelica del benessere spirituale.
I pochi ebrei che avevano accolto il Vangelo di Cristo, ben presto percepirono la tentazione di far ritorno alla solenne liturgia del tempio di Gerusalemme, non ancora distrutto da Tito, e così lasciare la disadorna liturgia cristiana che si celebrava nelle case, spezzando il pane attorno alla mensa casalinga. Paolo, o più probabilmente un suo discepolo, per confermare la traballante fede di questi cristiani ebrei, scrisse uno dei documenti più preziosi dell’intera Scrittura: la Lettera agli Ebrei. I primi capitoli sono dedicati alla considerazione che l’uomo è più nobile degli angeli, perché ha il corpo attraverso cui conosce la gamma dei sentimenti. L’angelo invece è perfezione statica, senza divenire. Poi fa notare come l’uomo, grazie alla fatica accumulata durante il viaggio della vita proprio per il peso del corpo, quando entra nel riposo del Signore, quel riposo è più profondo e gustoso di qualsiasi esperienza degli angeli. “Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di tentazione” (Eb 4,11).
In questa lettera l’autore immagina il Figlio di Dio che lascia la fisionomia di puro spirito ed entra nel tempo prendendo il corpo dal seno di una donna. Dice il testo: “Il Cristo entrando nel mondo dice: “Tu, o Padre, non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato…Ecco, io vengo…per fare o Dio la tua volontà”. Ricevendo il corpo, fatto di materia, il Figlio di Dio diviene il Cristo. Disturbati dal nostro preconcetto che lo spirito è perfetto e la materia è imperfetta, pesante, peccaminosa, molti teologi hanno interpretato l’incarnazione del Figlio di Dio come un abbassamento dovuto al nostro peccato. Per cui l’espressione paolina: “os en morphè Theou uparkon… allà eauton ekenosen…” è da noi ufficialmente tradotta in: “Pur essendo di natura divina, …abbassò se stesso”; mentre questo “os” è il relativo e letteralmente dice: “Il quale è di forma divina… abbassò se stesso” (Fil 2,6-7). Il senso è che si abbassò proprio in grazie al suo essere di forma divina, senza alcun malincuore o rimpianto.
E’ appunto il Cristo con il suo corpo che è la sorgente della nostra salvezza. Noi festeggiamo il concepimento, la nascita, la circoncisione, la trasfigurazione, la passione, la morte, la risurrezione di questo corpo. La nostra è la religione del corpo cristico. Ogni sacramento, in particolare la comunione eucaristica, è la grazia che da questo corpo fluisce nel nostro corpo.
La Lettera agli Ebrei due volte ripete questa espressione, per me una delle parole più nuove in assoluto all’orecchio umano. “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna…” (Eb 5,8). Testimonia l’autore della Lettera che la figliolanza divina di Cristo è resa perfetta imparando l’obbedienza dalle cose che patì: quindi che il corpo con la sua vocazione a conoscere la sofferenza ha reso perfetto il Figlio eterno di Dio. Ha reso perfetto il Logos, in cui tutto è creato. E’ come dire che il tempo rende perfetto l’eternità, la storia rende perfetto il Regno di Dio. Infatti il Regno di Dio non è statico, ma diviene. Qui noi tocchiamo il rapporto intimo fra Dio e l’uomo, la grazia e il peccato, il corpo e lo spirito. Recentemente alcuni teologi si sono incamminati nella comprensione della materia non più come un elemento inferiore allo spirito, ma reciprocamente integranti. Fra questi Teilhard de la Chardin.
Gesù all’ultima cena due volte compì il gesto dello spezzare il pane e dare il calice del vino. La prima volta dicendo: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico che non la mangerò più, finche sia compiuta nel regno di Dio”. E, preso un calice, rese grazie e disse: “Prendete questo e distribuitelo fra di voi; perché io vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno di Dio”. Con questo primo gesto Gesù eleva il voto cristico: dichiara di digiunare finché la Pasqua, ossia il passaggio della salvezza, non sia completo; finché non venga il regno di Dio che è giustizia, pace e gioia nella Spirito Santo. Come caparra di questo voto dell’attesa di tutti nel regno di Dio, consacra il suo corpo. Dopo questo primo gesto, nuovamente riprese il pane “rese grazie e lo ruppe, e lo diede loro dicendo: “Questo e il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi. (Lc 22,16-20). Il suo corpo che Gesù ha votato alla salvezza di tutti, lo dà in cibo e il suo sangue in bevanda, affinché tutti abbiano la forza di passare al regno di Dio. Così noi, cibandoci di quel corpo, siamo corroborati e contemporaneamente siamo uniti nella sua stessa missione divenendone una cellula, come afferma Paolo. Così nessuno di noi vive per se stesso né muore per se stesso, ma in Cristo viviamo e moriamo partecipando del voto cristico della salvezza di tutti. In questo scioglierci ed essere Cristo che attende tutti c’è il paradiso. Il nostro paradiso è quella parte che nel voto di Cristo ci è affidata. Il grande Antonio Rosmini, così incompreso ai suoi tempi e ora elevato all’onore dei beati, insegnò che Gesù, morendo alla sua fisionomia storica, è risorto e continua a risorgere come Eucaristia, come corpo votato alla salvezza universale. L’Eucaristia è il corpo risorto del Signore.
Il corpo è santo. Abbiamo cura del corpo, dei suoi ritmi, dei suoi sentimenti, della sua vocazione a nascere, crescere, morire, risorgere.
Il popolo giapponese ci offre l’esempio di un aspetto squisito di cura del corpo attraverso le tante vie che ha coltivato nella sua cultura: la via del tè, del fiore, dell’arco, della scrittura, il judo ecc. Ho frequentato la via del tè per anni. Il tè è la bevanda più ordinaria in Giappone: come preparare una tazza di tè e come gustarla cogli amici, nel rispetto delle forze cosmiche in cui vive il mio corpo. Le vie educano alla dignità del corpo, nella convinzione che il corpo coltivato diviene l’ambiente per l’opera dello spirito. Noi occidentali spesso buttiamo tutto nel proclamare grandi ideali, le idee perfette dell’iperuranio. Ideali che fomentano la concorrenza a volte spietata, che a volte si tramutano in dittatura violenta, perché non hanno “imparto l’obbedienza dalle cose che patì”.
Ora ascoltiamo in silenzio il canto sacro “Galilaya no kaze kaoru oka de”. Seguitene il significato in fondo alla seconda pagina del foglio che avete trovato sul banco.
padre Luciano Mazzocchi
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