Sab 28 Feb 2009 Scritto da Padre Luciano AGGIUNGI COMMENTO

* Il tempo di digiunare e il tempo di non digiunare

Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiu­nano?». Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi».

* Il cammino religioso è naturalezza

Brani di Vangelo come questo sembrano secondari in confronto con altri in cui vengono insegnati i grandi comandamenti della vita come il perdono e l’amore. Eppure in questi risvolti, quasi momenti di passaggio, si rivelano sfumature che colgono il fior fiore dell’inse­gnamento evangelico. Basta ascoltare con attenzione! Se i grandi in­segnamenti sono il frutto, questi passaggi ne sono il profumo e il sa­pore. Perfino il precetto dell’amore, senza il profumo nascosto del­l’umiltà, non libera l’uomo, ma lo lascia tracotante sotto la maschera dorata dell’amore.

I discepoli di Giovanni il Battista e i farisei osservavano rigoro­samente le prescrizioni del digiuno e, orgogliosi della loro pratica perfetta, rivolgono a Gesù la sguente critica: «Perché… i tuoi disce­poli non digiunano?». Com’è facile a chi compie una pratica reli­giosa e appartiene a uno specifico gruppo atteggiarsi come fecero i discepoli di Giovanni e i farisei: Io sto digiunando! Io sono osser­vante! Io pratico lo zazen da dieci o più anni! lo non manco mai alla messa! La consapevolezza di stare facendo una pratica inconsape­volmente corrompe il senso della pratica in sentimenti di orgoglio e di superiorità. La propria pratica diviene un atteggiarsi di fronte agli altri. Chi ha veramente fame mangia e basta, e chi ha veramente sete beve e basta. Il bambino affamato poppa alla mammella della madre con tutte le sue forze. Ma nel cammino religioso può avvenire che uno compia la pratica perché glielo detta non la vita, ma la sua vana­gloria religiosa. Allora la pratica è affettata di moine, sorrisini e invi­diuzze; soprattutto ristagna in compiacimenti e confronti. Se Gesù non fosse stato un vero maestro di vita, davanti alla questione posta dai discepoli di Giovanni e dai farisei, avrebbe dato inizio a disquisi­zioni sulla loro e sulla sua teoria del digiuno. Forse era proprio quello che gli interlocutori si aspettavano. Invece la sua risposta è una considerazione molto semplice: dichiara che il digiuno più santo è quello che la vita richiede e non quello osservato in nome di teorie religiose. Gesù sembra eludere la loro domanda di natura teologica con una semplice considerazione di ordine pratico. Ma è proprio questo convogliare l’attenzione altrove, verso la vita, che rivela il profumo del Vangelo. Il profumo del Vangelo è la naturalezza fondata sulla fiducia nella vita. «La vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?» (Mt 6,35). La vita è la grande maestra del cammino religioso. Nessuna pratica religiosa è in se stessa buona o cattiva, ma diventa buona o cattiva a seconda del suo rapporto con la vita.

«Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro?… Verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno». Il digiuno più religioso è quello compiuto non nella consapevolezza di fare una pratica religiosa, ma piuttosto perché im­posto dalla vita. È il digiuno del povero che non trova nulla da man­giare, il digiuno dovuto al fatto di condividere il proprio pasto con l’affamato che ha bussato alla porta. Perfino il digiuno che consegue dal fatto di aver dimenticato di comperare il cibo, se vissuto con cuore religioso, è più santo del digiuno fatto sotto l’egida della pre­scrizione religiosa senza riferimenti con la vita.

Questo è il vero zazen di cui la pratica dello zazen è sacramento: stare di fronte al muro della vita composti e dignitosi, credendo che la vita ci guida alla libertà che io non conosco, ma che è quella auten­tica. Questa è la vera celebrazione eucaristica di cui la celebrazione della messa è sacramento: ossia nutrirsi del corpo dato e del sangue versato di Cristo ed essere anche noi corpo dato e sangue versato nelle cose che capitano nella vita. Com’è liberante lasciarsi verificare dalla vita e dalla realtà! Constatare che non ci si sta imbrogliando e che non si segue un mero capriccio religioso!

Eihei Doghen scrive:

«Inverare le cose mettendo avanti se stesso: questo è l’illusione; par­tendo dalle cose inverare se stesso: questo è il risveglio. Coloro che fanno dell’illusione un grande risveglio, queste sono le persone della via; coloro che fanno del risveglio una grande illusione, queste sono le persone del mondo».

Sentiamo profonda riconoscenza perché il Vangelo e lo Zen resi­stono così tenacemente contro il fascino ammagliante dell’illusione!

p.Luciano

* Il rischio della libertà

I brani di Vangelo in lettura questa domenica e le due successive mi pare abbiano in comune il tema della libertà. La ricerca del signi­ficato della vera libertà e lo sforzo di metterla in pratica mi sembra essere, oggi, la definizione più appropriata del cammino religioso. Per coloro la cui vita è marcata solo dalla necessità di non soccom­bere alla fame e agli altri bisogni primari, in un certo senso la libertàè un lusso; e allora anche la religione è un lusso. Ma se per libertànon intendiamo solo la propria liberazione personale, cioè la soddi­sfazione narcisistica di godere della libertà, ma la intendiamo inscin­dibile dal contesto di tutta la vita che ci circonda, dal rapporto vigile con il dolore e con il mistero, allora quel lusso non è un privilegio ma la parte che ci tocca per sperimentare, testimoniare e diffondere un rapporto con la vita e con tutto ciò che incontriamo. Chi, come reli­gioso, non porta ovunque con sé una testimonianza di autentica li­bertà, viene meno al suo compito. Se c’è una cosa, su tutte, che affra­tella Gotama e Gesù è proprio che furono uomini sommamente li­beri. Noi sentiamo ancor oggi il profumo della loro libertà.

Ma la libertà è rischiosa, perché isola ed espone. È spesso più fa­cile accettare una schiavitù che garantisce la continuità del solito tran-tran, che respirare una libertà che mette in gioco risultati acqui­siti. Il Vangelo di oggi ce lo mostra. «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiu­nano?». Agli occhi di chi guarda, chi digiuna è un sant’uomo e chi mangia un uomo ordinario. Chi fa questa domanda non capisce la li­bertà del digiuno né quella di non digiunare. La libertà del digiuno èquella di aderire al periodo di digiuno con lo spirito libero da pregiudizi, senza preoccuparsi se gli altri digiunano oppure no, senza far pesare agli altri il proprio digiuno. La libertà di non digiunare non è quella arbitraria di rompere la regola del digiuno, qualora vi sia quella regola, ma è la libertà di comprendere quando è il momento del digiuno e quando no, e di non digiunare se non è quel momento, si fosse anche nel bel mezzo di un esercito di digiunatori. Un segno di quella libertà che cerchiamo è non fare qualcosa solo perché la fanno tutti gli altri.

Riconoscere il tempo non è cosa facile: bisogna avere gli occhi aperti e la testa sgombra. Gesù è un esempio straordinario di lucidità e di assenza di pregiudizi. È questo suo esempio che dovremmo se­guire. Non per fare di testa nostra, ma per evitare che la tradizione sia un paravento dietro cui nascondersi anziché un pungolo che ci sprona. La tradizione ha questa caratteristica: è un sostegno che tende a diventare un nascondiglio. Quando ci accorgiamo che la tra­dizione diventa un nascondiglio per le nostre paure di sbagliare, in­vece che il sostegno che ci conforta nel momento del rischio, allora èil momento di smettere di rattoppare, è il momento di buttar via l’a­bito vecchio perché non diventi vecchio anche ciò che riveste. È il momento di vendemmiare il vino nuovo e di metterlo negli otri adatti. «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove», scrive Paolo nella seconda Let­tera ai Corinti (5,17). Questo processo non è mai finito: le cose che ieri erano nuove diventano vecchie oggi, a meno che non si rinno­vino con il tempo che viene. La libertà è anche il rischio di andare in­contro al tempo che viene, di cui non sempre è facile riconoscere i connotati, per evitare il ristagno, così comune in religione, di anco­rarsi al tempo che ormai è andato.

Jiso

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