Sab 28 Mar 2009 Scritto da Pierinux AGGIUNGI COMMENTO

Per questo sono giunto a quest’ora

Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!». La folla che era presente e aveva udito diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Rispose Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire.

  • Il Pensiero Divino si fa Carne: la Croce Posizione Gloriosa

Questo passo del Vangelo riversa un raggio di luce sugli interrogativi che più incalzano l’animo umano lungo il sentiero dell’esistenza, sia del povero come del ricco, sia del letterato come dell’analfabeta. È un raggio che fa luce in quella direzione che noi convenzionalmente chiamiamo il passato della realtà, quella che noi preferiamo lasciare da parte per guardare decisamente al futuro. Anche ricercando un perché al dolore, noi sovente ci proiettiamo verso il futuro per averne una spiegazione, nella convinzione che davanti a noi, nei giorni che verranno, ci sarà un contraccambio di felicità alla croce che dobbiamo portare adesso nella vita. Il Vangelo, invece, ci invita a guardare dall’altra parte e a fare un cammino a ritroso, fino all’origine della creazione, quando il dolore era allo stato puro, ancora non contaminato dal peccato dell’uomo. Quando non c’era ancora alcun perché aggiunto, ma era semplicemente un aspetto di tutto ciò che scaturisce all’esistenza, che gocciola dalle mani creatrici di Dio. La creazione è sempre in atto: quindi il cammino a ritroso che il Vangelo indica avviene ora, dentro ogni presente, in ogni istante. Davvero, è perché noi abbiamo dimenticato l’origine, che il dolore ci incupisce al punto di immaginarci un futuro in cui sarà tolto e tutto sarà felicità. Ma se il dolore fosse tolto, sarebbe tolta anche l’esistenza! Sarebbe tolto anche Dio!

Ci è stato insegnato nel catechismo che il dolore è entrato nel mondo come castigo per la disobbedienza di Adamo ed Eva. Ci è stato detto che anche la sofferenza della gazzella abbattuta dal leone consegue dal peccato degli uomini: gli animali e la creazione tutta è caduta nel disordine e nella violenza a causa del peccato originale. «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità. Non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19-21). Così l’apostolo Paolo. Eppure già prima che il primo antenato degli uomini comparisse sulla terra, i dinosauri si azzannavano a vicenda e i cataclismi naturali causavano la morte di intere razze animali. Oggi la scienza pone delle domande verificatrici al credente: sono domande che disturbano alcune inveterate sicurezze e mettono di fronte a nuove sfide. È detto nel Vangelo che Gesù parlava alla gente in parabole affinché «pur vedendo non vedano, pur udendo non intendano» (Lc 8,10). La scienza, oggi, è un po’ come una di quelle parabole, oppure è come un koan dello Zen che riporta a nudo il discepolo che si è ammantato di illuminazione. Pensavamo di aver inteso; invece la scienza ci ributta da capo.

Il dolore è da fin dall’inizio, fa parte della creazione originaria! Comprendere ciò è la porta verso un rapporto con il dolore più pacato. Quante spiegazioni sono state tentate dall’uomo nei secoli, attorno al destino di dover soffrire! Gesù, di fronte al dolore, quello intenso del dover morire ancora giovane, per di più abbandonato dai suoi stessi discepoli, disse: «per questo sono giunto a quest’ora». Indicava l’ora della sofferenza e della morte! Mentre così diceva, ecco un’energia di gloria pervadere il suo corpo. «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo». Morte, sofferenza e gloria! Quale dignità di fronte a ciò che abitualmente abbatte!

Sovente noi, quando la vita ci costringe ad attraversare una prova dolorosa, ci sentiamo spersi, spaesati, confusi, avviliti. Siamo nel bel mezzo della sofferenza fisica, e incrementiamo la dose aggiungendovi altra pena, quella dello spirito. Ci domandiamo come mai proprio a noi sia capitato di dover soffrire; a noi che, davvero, non lo meritavamo! Rimuginiamo i tanti perché nell’intimo della coscienza; e il cuore, come se quei perché uno a uno lo mettessero sotto accusa, soffre di un dolore sottile e intenso. A monte di questo meccanismo c’è la presunzione atavica che la vita sarebbe più vera e bella senza la sofferenza. Ciò è così ben incuneato dentro i complessi strati della nostra mente, che difficilmente ce n’accorgiamo e tantomeno facciamo qualcosa per liberarcene.

«Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Gesù sperimentava la sofferenza come ogni uomo; ma aveva presente che l’appuntamento con la sofferenza ha la sua ora nella vita; e quando quell’ora viene, è gloriosa; come quella della gioia, quando viene ed è la sua ora. «Per questo sono giunto a quest’ora». Una donna concepisce il suo bimbo nella gioia dell’amplesso con il suo uomo, e lo partorisce nelle doglie del parto. Quando non è ancora l’ora, si fa di tutto affinché le doglie non arrivino a portare un dolore che non ha senso e sarebbe nocivo; ma quando è l’ora, si fa di tutto per accelerare e stimolare le doglie. Si evoca e si invita il dolore a venire, perché solo il dolore può riempire di senso quell’ora che è la sua. Così c’è il tempo per sbocciare e quello per lasciare cadere i petali; quello in cui la vegetazione esplode rigogliosa e quello invece in cui si addormenta per la morsa del freddo invernale. Se l’inverno è mite, la primavera che segue sarà infestata da nugoli di insetti, quelli vecchi che il freddo non è riuscito a sterminare e quelli nuovi, rendendo la vita dura alle gemme degli alberi e ai germogli degli ortaggi. Nell’equilibrio delle cose c’è anche un’ora gloriosa che si chiama sofferenza e morte.

Davanti al dolore che gli faceva visita, Gesù esclamò: «È giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo»! Sì, dobbiamo vedere la gloria di essere chiamati in quel preciso momento a soffrire; così il dolore è accolto e offerto in modo puro, senza appesantire, né alleggerire ciò che ci è affidato. «Sia fatta la tua volontà!»: ci ha insegnato a pregare.

Quando la croce che ci capita sulle spalle è proprio quella che dobbiamo portare in quel preciso momento, insieme con la croce ci è data anche la forza e soprattutto il senso che illumina il destino di doverla portare. Non c’è via migliore per portare la croce, che quella di non manipolarla. Molti mettono le mani sulla croce per tenerla lontana, qualcuno anche per tirarla su di sé nella mania vittimistica che a volte alletta l’essere umano. Le cose, soprattutto quelle più importanti, sono autentiche soltanto se non siamo noi a volerle gestire. Così è, per esempio, la scelta vocazionale o quella del matrimonio. Si sposa bene non chi ha manovrato per sposarsi bene, ma chi riconosce da ciò che avviene che sposarsi è la via. Quando le cose avvengono senza aver artificialmente forzato nulla, sia la gioia sia il dolore, sono gloriosi. Soprattutto li percepiamo come cose nostre, inerenti a noi.

Gesù accoglie la sofferenza dalle mani del Padre. È la sua ora, è la sua vita, è la sua missione in quel preciso momento. «“Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!”». Soffrire: non perché siamo i forti; non perché siamo i migliori; non perché vogliamo meritare qualcosa; non perché noi siamo i benefattori che devono patire per salvare il mondo! Ma soltanto perché è quest’ora! Infatti soffre chi pazienta per redimere il peccatore; ma soffre anche il peccatore che nel commettere il peccato che è l’opposto della sua vera pace. C’è dolore nel fare il bene e c’è dolore nel fare il male. E lungo tale sentiero, attraverso la conversione, si incontra una gioia più grande.

Se il senso della sofferenza non facesse parte del pensiero puro e divino che ci ha chiamati a esistere, non ci sarebbe via di scampo: infatti il dolore sarebbe soltanto conseguenza dei nostri errori, sarebbe soltanto castigo e maledizione. Eppure tutti veneriamo quel corpo di donna che, dopo averci plasmati nel suo grembo, ci ha partoriti soffrendo le doglie e quel corpo di uomo che col sudore della sua fronte ci ha provveduto il cibo. Tutti chiniamo il capo davanti alla bara che accoglie il corpo di un carabiniere o di un poliziotto caduto a terra martire della sua missione. Tutti baciamo riverenti la reliquia di un martire della fede.

Un uomo di nome Gesù aveva adagiato il suo corpo sul ramo verticale della croce e steso le sue braccia su quello orizzontale. Nella posizione che lega il cielo alla terra, e gli orizzonti fra loro, aveva perorato il perdono universale.

Nella sua ora, la sofferenza è gloriosa, proprio mentre permane sofferenza. Nel momento della sofferenza il piacere sarebbe fuori posto, perché è l’ora di soffrire e non di altro. Nascondere la sofferenza con la maschera del distacco e forse ostentare una calma e una gioia che non ci sono, sarebbe mentire; perché nel momento della croce piangere è il comportamento più limpido. Le lacrime scaricano il dolore e dischiudono lo spirito alla visita della gioia, che è già presente nel bel mezzo del dolore, ma che attende il tempo giusto per aprirsi, come un bocciolo che dischiude la sua corolla ai raggi del sole primaverile, incurante se gli sia toccato di germogliare nell’aiuola di un giardino o nel terriccio di una discarica abusiva. Germoglia e fiorisce, non perché gli ha arriso la fortuna di un bel posto, ma perché quella è la sua natura e quello è il suo tempo.

p.Luciano

  • La vita e la vita

C’è qualche cosa che urta profondamente la mia sensibilità, nelle parole del Vangelo odierno. Non tanto nelle parole in sé, quanto nel loro accostamento. Ne viene turbata non la mia sensibi­lità personale, la mia suscettibilità, ma qualcosa di più intimo e im­personale insieme, cioè la mia sensibilità umana. L’accostamento che disturba è quello fra gloria e morte, vale a dire fra due termini e concetti che appaiono respingersi l’uno con l’altro.

Cosa c’è di meno glorioso della morte, se la spogliamo di tutti i suoi orpelli, di tutta la retorica che le cuciamo addosso per conso­larci? Non dobbiamo lasciarci trasportare da un facile entusiasmo: la gloria di cui qui si parla non ha niente a che fare con un abbelli­mento della morte, con un’idea della morte proiettata dal punto di vista della vita. No, qui la morte è quello che è, la fine di sé, lo scom­parire del chicco seppellito in terra. Quando il chicco muore, il chicco non c’è più: onestamente, che altro si può dire parlando dal punto di vista del chicco? E quale chicco dotato di sensibilità da chicco, cioè consapevole di sé per quello che è, non rimane turbato di fronte all’ineluttabilità della propria fine?

Eppure la morte è necessaria alla vita: la morte apre il vuoto di cui la vita ha bisogno per essere, per riempirlo di sé. Ogni cosa che nasce, nasce dalla morte di qualcosa. Questa è una legge che nes­suno può modificare. L’uomo della via è immerso in questa contrad­dizione: di amare la vita, che è la sede del suo esistere cioè della via stessa, e di sapere che senza la morte la vita non vive, qui in questo mondo dove siamo. È in questo mondo, è con gli occhi di questo mondo che la vita muore. Con gli occhi della vita eterna, la vita è, appunto, eterna: con gli occhi della vita di questo mondo, la vita ine­vitabilmente muore. Perciò chi ama la sua vita la perde, perché in questo mondo la vita muore, mentre chi odia la sua vita in questo mondo la conserva per la vita eterna, perché se la visione di questo mondo fa spazio alla visione dell’eterno, allora si dischiude il pano­rama eterno in cui non c’è nascita né morte. E questa è vera gloria.

Bisogna notare che la parola che il Vangelo usa per dire vita, nel caso di chi ama la sua vita e chi odia la sua vita in questo mondo, è psiche, la stessa parola usata poco dopo per dire anima (Ora l’anima mia è turbata); mentre per dire vita nell’accezione di vita eterna dice zoe. Nel testo greco è così evidente che la vita che muore, la vita in questo mondo, è il punto di vista della vita individuale, dell’anima singola (psiche in greco è appunto il soffio vitale individuale) che si sente a se stante, separato da ciò che è altro da sé, mentre la vita eterna è zoe aionon: zoe è vita in senso neutro, qualificata dall’ag­gettivo che segue, aionion, che qui vuol dire eterna: quindi la vita nel suo aspetto eterno, l’eternità della vita. La stessa vita è caduca, transi­toria, peritura oppure eterna, perenne, a seconda di come guar­diamo: ma c’è un unica vita. Per cui tutto muta in base all’orienta­mento del nostro guardare, del nostro essere nella vita. Se ci limi­tiamo alla nostra vita individuale, ebbene essa deve morire, e questo ci turba, a buon diritto. Questo turbamento mi spinge a guardare ol­tre il limite della mia vita, pur restando nella mia vita, per scorgere la stessa vita come vita del tutto, vita che fa vivere ogni singola cosa. La gloria del nome di Dio è la gloria della vita eterna che sostiene la vita individuale destinata alla morte. Questo non annulla il nostro tur­bamento, ma lo deposita su un fondo di pace che le vicissitudini di nascita e morte neppure scalfiscono. Se apriamo gli occhi a questa visione, se accettiamo di guardare con quegli occhi, cominciamo a comprendere cosa vuol dire

Sia fatta la tua volontà
 

 

Jiso

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