- I rami d’ulivo
Quando si avvicinarono a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio che vi sta di fronte, e subito entrando in esso troverete un asinello legato, sul quale nessuno è mai salito. Scioglietelo e conducetelo. E se qualcuno vi dirà: Perché fate questo?, rispondete: Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito». Andarono e trovarono un asinello legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo sciolsero. E alcuni dei presenti però dissero loro: «Che cosa fate, sciogliendo questo asinello?». Ed essi risposero come aveva detto loro il Signore. E li lasciarono fare. Essi condussero l’asinello da Gesù, e vi gettarono sopra i loro mantelli, ed egli vi montò sopra. E molti stendevano i propri mantelli sulla strada e altri delle fronde, che avevano tagliate dai campi. Quelli poi che andavano innanzi, e quelli che venivano dietro gridavano: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!
- Sull’umile cavalcatura della vita
«Condussero l’asinello da Gesù, e vi gettarono sopra i loro mantelli, ed egli vi montò sopra». L’asinello e l’agnello sono animali protagonisti del Vangelo, perché con la loro natura e con il loro destino rivelano il cuore di Dio. Il Vangelo non è esclusivo degli uomini, ma è di tutte le creature, e per questo va annunciato a tutte le creature e da tutte le creature, secondo la loro natura: «predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Gli uomini, gli animali, le cose vegetali e inanimate: il seme, la luce, l’olio, il lievito, la croce, le stelle, il mare, la montagna: tutte le esistenze sono attrici del Vangelo.
L’asinello in particolare ha un destino simile a quello del Signore: servire sempre e, servendo sempre, rimanere l’ultimo. Gesù lo scelse come sua cavalcatura per entrare trionfalmente in Gerusalemme. È detto nel testo evangelico che l’asinello era legato alla porta e Gesù lo fece prendere in prestito. Gesù non fa uso dello sfarzo al modo con cui gli uomini sogliono adornare i luoghi di culto. Gli bastano le cose più semplici, perché sono le più adatte per la gloria di Dio. Tutto è spontaneo. Egli sa che a giorni gli osanna si trasformeranno in sia crocifisso, sia crocifisso. Ciononostante accoglie volentieri l’osanna della gente, come l’asinello la sua biada per poi tirare la soma. Dio vince con l’umiltà. I mantelli degli apostoli fungono da drappi gloriosi e le fronde potate dagli alberi fungono da vessilli. «E molti stendevano i propri mantelli sulla strada e altri delle fronde, che avevano tagliate dai campi»: la strada del cammino e i campi del lavoro!
La gloria di Cristo non sono le basiliche, né i quadri, né le croci d’oro al collo; ma la vita sobria dei discepoli, significata nel mantello, abbigliamento indispensabile che il pellegrino usa per proteggersi dal freddo, per stenderlo come stuoia su cui prostrarsi in preghiera o dormire, o come tovaglia su cui mangiare, oppure come recinto attorno al suo corpo quando si piega per i bisogni fisiologici. La crisi religiosa di oggi non nasce dalla carenza di discorso su Dio. Viviamo nell’epoca dei mass-media che quotidianamente diffondono notizie che si riferiscono anche alla religione. Siamo nell’epoca della scuola confessionale di religione; nell’epoca in cui si festeggiano le prime comunioni, le cresime, i matrimoni, le ordinazioni sacerdotali. La crisi religiosa non consegue dalla carenza del nome di Dio, ma di quello della vita. È carente la conoscenza dell’uomo verso il volto integrale della vita: l’uomo conosce solo quel pezzetto di vita che serve alla sua attività. Il medico conosce il nome delle malattie che conseguono dall’uso sbagliato del cibo e conosce le medicine per curarle, ma non sa come si prepara il cibo, come lo si conserva, come lo si mangia: conosce la via per guarire, ma non quella per non ammalarsi. Il volontario conosce come promuovere le iniziative della solidarietà verso gli emarginati, ma non sa come l’uomo finisce emarginato, non sa come si previene l’emarginazione. L’insegnante conosce i principi da insegnare, ma non sa come si attuano. Il sacerdote conosce i testi sacri, la liturgia, i comandamenti; conosce per esempio che l’aborto è contro la natura e lo predica, ma non sa come è la società in cui tutti i bambini che devono nascere possono nascere.
Spesso avviene che con la loro condotta le persone causino quelle situazioni verso cui poi si danno da fare per rimediarle. L’uomo ignora il ciclo della vita, per cui ogni suo intervento rimané inadeguato. La non conoscenza della vita mentre ci si dedica alla vita comporta confusione, dispendio d’energia e stanchezza. Il popolo osannava a Gesù che entrava in Gerusalemme cavalcando un asinello. «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore».
Alcuni giorni dopo, il medesimo popolo avrebbe gridato crocifiggilo! crocifiggilo! Eppure Gesù era commosso. Conosceva il ciclo del cuore dell’uomo che passa dalla venerazione al tradimento in pochi giorni, con tanta facilità. È la vita che ha educato Cristo alla mitezza e che ora lo trasporta trionfalmente dentro la città della croce e della risurrezione, cavalcando un asinello.
p.Luciano
- * Il Signore che obbedisce
Il resoconto dell’ingresso in Gerusalemme, del giorno dell’Osanna, è riferito da tutti e quattro gli evangelisti. Una sola frase risuona identica in ognuno dei Vangeli, mentre tutto il resto è un po’ differente nelle quattro versioni. La frase è quella centrale, quella che dà il senso all’episodio e alla festa, ripresa dal Salmo 114, che veniva cantato in occasione della festa ebraica delle Capanne: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Notiamo innanzitutto una cosa: «che viene» (in greco erkomenos) è una traduzione certo non inesatta, ma di sicuro limitante. Il verbo erkomai, che qui troviamo al participio, vuoi dire non solo venire: vuol dire anche «andare, tornare, uscire, entrare, apparire, sparire…» tutta la gamma dell’esserci e del non esserci nell’ambito del movimento, dell’azione. L’esclamazione che torna identica in Marco, Matteo, Luca e Giovanni, allora, suona così: «Osanna! Benedetto colui che viene e va, che torna e parte, che entra ed esce, che appare e sparisce, che ingombra e si diffonde, che si avvicina e si allontana, nel nome del Signore». Benedetto colui che sempre si muove in nome del Signore. Benedetto colui la cui attività, nella quiete e nell’azione, nella presenza e nell’assenza, si svolge tutta nel nome del Signore: quel nome che abbraccia tutto. Qui il Signore è indicato con l’appellativo Kurios, il padrone, cui tutto è sottomesso e si inchina. Bisogna notare che, mentre il testo italiano usa il termine Signore in tre occasioni (rispondete: il Signore ne ha bisogno / risposero come aveva detto loro il Signore / Benedetto colui che viene nel nome del Signore) il testo greco usa Kurios nel primo e nel terzo caso, ma Iesus (Gesù) nel secondo (risposero come aveva detto loro Gesù): mi pare una differenza meno insignificante di quello che può sembrare a prima vista, perché mostra un’attenzione e una delicatezza straordinarie e ci aiuta a comprendere cosa indica quel termine Signore. Gesù chiede l’asino non per sé come individuo Gesù, ma per sé come Signore del tutto, che lui, Gesù, rappresenta e incarna. In tal modo, viene espressa contemporaneamente l’identità e la distinzione di Gesù e del Signore.
A fronte di questa delicatezza, colpisce invece l’insistenza con cui nella liturgia ritorna il termine Signore: un’insistenza che a volte rende difficile l’adesione del cuore oltre che quella formale delle labbra. È bene allora chiedersi: cosa vuol dire Gesù quando parla di sé come Signore?
È proprio Gesù a indicarcelo: «Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21ss). E Gesù stesso si identifica nell’appellativo di Signore proprio nel momento in cui sta per avviarsi a obbedire alla volontà di Dio, morendo in croce. La signoria indica servizio più che padronanza, obbedienza più che autorità, umiltà più che potere. La signoria non nasce da un senso di superiorità, ma dal riconoscimento che servizio, obbedienza, umiltà non sono virtù meritorie ma necessità cui aderire. Da quell’adesione consapevole nasce la signoria: signoria non sulla realtà, ma nella realtà, con la realtà. Gesù è il Signore perché fa la volontà di Dio; Budda è il Perfetto perché aderisce al Darma. Non confondiamo la signoria con il comando, e, soprattutto, con il guadagno, con la fama, con la superiorità sugli altri. Il Signore non è il capo di un’istituzione che si avvia a signoreggiare sul mondo intero, ma è colui che viene su un asinello nel nome del Signore e va obbediente per la strada per lui preparata.
Jiso
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