* Io sono la vite, voi i tralci
«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. lo sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
* Il pensiero divino si fa carne: la Grazia
Essere in grazia di Dio! È un’espressione molto frequente nel linguaggio cristiano; e significa essere così come Dio ci vuole, secondo il suo pensiero. Tuttavia, cosa sorprendente, la grazia non corrisponde alla virtù o alla moralità. Non è il successo dello sforzo umano; e nemmeno è data di più ai santi che ai peccatori. Secondo il Vangelo, la più gioiosa manifestazione della grazia è la conversione del peccatore. Allora cos’è la grazia?
Nella parabola della vite e dei tralci Gesù descrive la grazia con tre verbi: rimanere, essere potati, portare molto frutto affinché la gioia sia piena. L’albero dà l’esempio: rimanere nell’energia della grande natura, crescere, fiorire, maturare innumerevoli frutti saporiti e profumati.
La vita in se stessa, nella sua varietà di momenti e di forme, è grazia. Nel mondo materiale c’è un elemento che sovente è indicato come immagine della grazia: l’acqua, appunto perché svolge la sua funzione assumendo le più svariate forme. Così il sacramento che per eccellenza indica la grazia è il battesimo, ossia l’immersione dell’uomo vivente nell’acqua, invocando lo Spirito Santo. Non solo l’uomo è battezzato, ma tutto il creato vi è immerso. Al momento del suo commiato da questa terra, Gesù comandò così: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mc 16,15-16).
Nella parabola del Vangelo che stiamo meditando, la grazia è indicata nella linfa della vite. Non si tratta di un simbolo, perché la linfa, nel suo ordine, è la grazia. Tutto ciò che dall’intimo di un’esistenza fa vivere quell’esistenza, la fa fiorire, crescere, maturare, morire; in altre parole quell’energia che fa essere ogni cosa con dignità, bellezza e funzionalità, quella cosa è la grazia. Nella religiosità di molte persone il miracolo è il sacramento principale della fede, come uno squarcio sul mondo ideale che sta oltre. Ma Gesù, per descriverci la grazia, ha fatto ricorso alle cose semplici della vita di ogni giorno: la vite, il suo tronco, i suoi tralci, il vignaiolo, il potatore, i rami secchi. Ugualmente i sacramenti della grazia che ci ha lasciato sono fatti di cose e funzioni della vita di ogni gioTIlo: l’acqua che lava, l’olio che lenisce, il pane che nutre, il vino che dà brio, l’unione fisica dell’uomo e della donna che si amano come segno della feconda carità di Dio verso la sua creazione. Le cose semplici sono l’immagine più efficace della grazia, perché quelle cose stesse sono grazia.
I teologi hanno distinto la grazia in naturale e soprannaturale: ciò è detto secondo l’occhio umano che vedendo alcune cose sopra le chiama superiori, e altre sotto le chiama inferiori. Ma sia respirare l’aria della natura, sia invocare lo Spirito di Dio, tutto è grazia.
All’inizio del Vangelo Giovanni afferma: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,16-17). La Chiesa, anche nel suo Catechismo ufficiale, ha favorito una comprensione globalizzante anziché carismatica del Cristo. Il Cristo è inteso salvatore di tutti in quanto assorbe tutto dentro di sé, anziché essere pane da mangiare e vino da bere per tutti. Lo pensiamo come colui che siede a tavola e si fa servire, anziché colui che serve i commensali. I commensali sono la creazione con la sua varietà, la storia con le sue sfide, le religioni con le loro ricchezze spirituali.
Così, anziché insegnare il perdono incondizionato che Gesù ha testimoniato sulla croce, il Catechismo della Chiesa cattolica sceglie di venire a compromesso con le politiche degli uomini, concordando che, pur in rarissimi casi, lo Stato può condannare a morte il reo. Eppure, ciò sminuisce il valore della Chiesa, perché continuamente la costringe al compromesso con la realtà del mondo. Chiesa dalla vocazione a celebrare la grazia, ridotta invece ad abdicare dalla radicalità del Vangelo, che è il suo vero volto! Le condanne sono la logica della legge; la grazia, invece, è il perdono universale accolto come fondamento incondizionato del senso della vita. La grazia non legifera, non impone; attende anche millenni, ma mai abdica alla pura vitalità della sua linfa. Un albero può essere abbattuto dall’uragano; la grazia fa germogliare il suo ceppo, oppure lo fa marcire affinché così, ancora, viva in altre forme nella grande economia della grazia.
Nel buddismo l’espressione che, secondo l’umile parere di chi scrive, maggiormente richiama la grazia annunciata nel Vangelo è la natura autentica, nei testi buddisti chiamata buddità. È presente ovunque perché non è né prima né dopo le cose, ma costituisce le cose. Chi, come si dice, ottiene il risveglio dell’illuminazione non aggiunge nulla a ciò che da sempre è: semplicemente lo scopre, ne diviene consapevole e lo fa vivere. Ma anche questo scoprire, divenirne coscienti, farlo vivere è attività della natura autentica.
«Sta’ attento di non rotolarti nel fango con la scusa che vuoi salvare gli altri. La natura autentica che devi sempre testimoniare èinvece la siepe, è il muro, è la tegola, è il ciottolo. Dici che vuoi progredire nella via? Chiedi sul serio come divenire ciò che dici: così è natura autentica [1]»
Con queste parole presenta la natura autentica il maestro Doghen, il grande profeta dello Zen contemporaneo di Francesco d’Assisi. La natura autentica è l’energia della vita quotidiana che si esprime in tutte le funzioni. Siccome noi siamo tentati a immaginarla nelle cose eclatanti, è importante cercarla in quelle semplici, come un ciottolo al ciglio della strada o una tegola, fosse anche usurata dal tempo.
Ogni popolo e ogni religione ha colto un aspetto della grazia. La grazia che Gesù ci rivela nella parabola della vite e dei tralci ha spiccatamente la qualità cristica, ossia quel particolare senso, quella particolare vitalità che sono stati riversati sul mondo dalla morte e risurrezione del Cristo, il Pensiero divino fatto carne. La grazia è energia che unisce Dio, l’uomo e tutta la creazione; irrora tutto ciò che è, ma, contemporaneamente, come l’acqua ha i suoi pozzi in cui si purifica, ha le sue infiltrazioni nella roccia da cui prende la sua qualità, i suoi sali. Il cristiano sa che il pozzo che contiene la grazia in modo inesauribile è il costato di Cristo. Giovanni nel suo Vangelo dà molto importanza al fatto che, quando il corpo di Gesù pendeva morto sulla croce, «uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate»(Gv 19,34-35). Affinché anche noi crediamo all’inesauribilità di quel pozzo della grazia!
Nella parabola dettata da Gesù, la grazia è raccontata con l’immagine dell’albero della vite: il Padre ne è il vignaiolo, il Figlio ne èil tronco, ogni uomo ne è il tralcio, e la dolcezza dell’uva ne è l’amore dello Spirito. La grazia, secondo il Vangelo, è infinitamente fantasiosa e salvifica, perché scorre attraverso le vene della terra e il cuore delle persone. La natura qualifica la grazia di umiltà e il cuore delle persone la qualifica di amore. La grazia di Cristo è qualificata dal sacrificio della croce. Il cristiano sa che la grazia che lo irrora è passata attraverso il cuore di Cristo e di tanti fratelli; e, all’origine, è sgorgata dal cuore del Padre. La grazia è personale! E insieme è naturale: dono inconscio di ogni elemento che costituisce il cosmo, anche del sassolino che fa la sua parte per sorreggere l’alta montagna. Dal ventre della montagna sgorga l’acqua che scorre a valle.
Gesù, descrivendo la parabola della vite e i tralci, dà molto rilievo al senso della potatura, in altre parole al senso del sacrificio. Ai primi sintomi della primavera che si avvicina, l’agricoltore e il giardiniere pongono mano alla potatura degli alberi. La regola della potatura è questa: tagliare i rami che nell’annata passata hanno già espletato il dovere di fare frutto, e fare spazio a quelli che tale dovere non l’hanno ancora compiuto. Per ogni ramo c’è un’annata in cui nascere e crescere, e un’altra in cui fermare la crescita e portare frutti. Il taglio della potatura è al servizio di questa provvidenza. «lo sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo… ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto». I rami, al taglio del potatore, stillano un liquido trasparente, simile alle lacrime. Sovente anche l’uomo lacrima, quando viene potato nei suoi rapporti più cari. E anche questo è grazia.
Il Vangelo della vite potata è intensamente pasquale: è pregno del senso religioso che anima il legame inscindibile della vita e della morte. Il vignaiolo raccoglie i rami potati caduti a terra e li compone in fascine. Seccati al sole, saranno un buon combustibile. I pochi rami risparmiati sul tronco continuano a stillare lacrime di linfa. La linfa, che ora rimargina la ferita, a giorni stimolerà la gemmazione, poi formerà i frutti. Al sopraggiungere della stagione invernale, questi rami, come quelli precedenti, saranno sacrificati, lasciando posto ad altri. Ricevere la vita, portarla a maturazione, quindi essere potati sicché tutto sia offerto: questa è la grazia, è la vita qualificata di intima gratuità e amore. «Rimanete in me e io in voi».
p.Luciano
[1] DOGHEN, Bussho – La natura autentica, 76.
* C’è frutto e frutto
La cultura occidentale è diventata la cultura dei frutti. Portare frutto è inteso come sinonimo di cultura e di progresso, il senso stesso dell’esistere. Forse questo nasce dalla realtà del deserto, culla della cultura occidentale, quel deserto arido di frutti, in cui, se ogni pianta non dà frutto, è solo un’inutile arbusto che sottrae acqua alle altre piante, e se ogni uomo o donna non genera stirpe, il popolo diminuisce e non può affrontare le difficoltà della vita nel deserto e i nemici sempre in agguato.
La cultura occidentale ha esagerato con l’ideologia del frutto, per la quale portar frutto è un bene in sé, e quindi il bene è portare frutti. L’idolatria per la tecnica e la tecnologia, che riproducono all’infinito frutti, anche senza semi, nasce da qui. È l’idolatria della quantità, del tanto più tanto meglio. Questa ideologia ha contagiato ormai tutte le culture, per cui il mercato (cioè la produzione di frutti e la loro vendita) è diventato l’unico punto di riferimento accettato da tutti come ovvio e inevitabile.
Nell’iconografia dello Zen, l’albero seccato su cui cresce il muschio è un’immagine dell’uomo della via. C’è un aneddoto cinese, che anche Merton cita in un suo libro come esempio di sapienza religiosa:
«Mentre attraversava una montagna, Chuang Tzu vide un albero alto dai rami lunghi e dal fogliame rigoglioso. Un boscaiolo che tagliava legna lì vicino, non toccava quell’albero. Chuang Tzu gliene chiese il motivo. “Perché la sua legna non è buona a nulla”, rispose il boscaiolo. “Grazie alla sua inutilità quest’albero giungeràal limite naturale della sua esistenza”, concluse Chuang Tzu».
Credo sia un bene che l’influsso di questa visione orientale calmieri un po’ l’esagerata passione per i frutti che noi propugniamo. Credo che anche il cristianesimo, che è alla base della cultura occidentale, debba fare una riflessione in proposito. Troppo spesso, nelle sua storia recente, ha avuto un occhio di eccessivo riguardo per la quantità, per la produzione di frutti.
C’è il rischio che qualcuno si appropri del brano del Vangelo di oggi per fame il puntello dell’ideologia efficientista della produzione di frutti a ogni costo. A una lettura affrettata, con gli occhi velati dal mito del prodotto e del risultato di successo, sembra dire che chi non porta frutto viene gettato via perché inutile. Ma dov’è allora lo spirito delle beatitudini, dove viene dichiarata beata la povertà, la mitezza, la fame e la sete di giustizia, e tutto ciò che è il contrario della valutazione in base al risultato, al riscontro quantitativo, alla conta dei frutti?
Credo opportuno e molto raccomandabile leggere questo brano di Vangelo con quello seguente. Si tratta di un unico discorso che non è bene frammentare, per evitare ogni equivoco sul significato dei frutti. Perciò, proseguiamo commento e lettura unendo insieme i due brani del Vangelo secondo Giovanni in un unica lettura e in un unico commento.
jiso
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