lettera
Vangelo e Zen
Vangelo secondo Giovanni 20,1 e seguenti
un brano del Vangelo indicato sopra
1 Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». 3 Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. 4 Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5 Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. 6 Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, 7 e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. 8 Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9 Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.
- “non avevano infatti ancora compreso….”
Il brano riportato non corrisponde a quello letto nelle celebrazioni di questa domenica, ma è il brano che lo precede, che fu letto nella veglia pasquale. Lo riprendo perché ci regala alcune considerazioni tanto semplici quanto preziose. Il brano termina affermando che i discepoli Pietro e Giovanni e tutti gli altri “non avevano ancora compreso… che egli doveva risuscitare dai morti”. In altre parole, avevano creduto in un Cristo che vive sempre, trionfa e non muore mai; ma non avevano potuto credere nel Cristo che risorge dai morti. Se il bene è bene, non può che trionfare. Così pensavano Pietro e Giovanni e così penso anch’io quando imposto le mie attività con nel cuore la presunzione che tutto deve andare bene, senza conoscere fallimenti. E per questo scopo elevo preghiere, convinto che dove c’è giustizia e santità tutto deve procedere di meglio in meglio. In altre parole, anch’io comprendo il cammino religioso come una scalata in cui si diventa sempre più virtuosi, più beati, più santi; quindi esenti dal dover chinare il capo e riconoscere fallimenti o peccati da cui risorgere morendo; quindi esenti dal dover tante volte tornare indietro. Se invece si deve chinare il capo, tornare indietro e ripartire è soltanto – penso – perché qualcosa è andato storto. Ma se tutto va bene, si sale e si sale sempre più in alto. Non è, forse, questa la visione del progresso oggi decantato alla grande? Un progresso senza limiti, proiettato verso il sublime. Non è forse questa la dinamica dei tanti centri di benessere che prosperano nelle nostre città? Anche qualche preghiera liturgica sembra cedere a questa tendenza: infatti, vi si invoca la venuta del giorno senza tramonto. Un giorno senza la gamma dei colori, dall’alba al tramonto, dalla notte al meriggio, dev’essere monotono. Proviamoci ad immaginare un paradiso, dove tutto sia gioia imperturbata e imperturbabile, mentre sulla terra i bambini continuano a morire di fame!
Piace forse a tutte le religioni affermare: Se aderisci ai miei insegnamenti diventerai sempre più buono, sempre più beato. Piace alle religioni sparlare della morte e promettere la vita, intesa secondo gli attaccamenti umani. La visione religiosa che ambisce l’esenzione dal dover morire, che tanto ci alletta, ama restare teologia, discorso, professione del credo, liturgia, esaltazione di miracoli. Ama tutto ciò che trattiene la religione lontano dalla vita reale, dentro un gioco mentale. Anzi, condanna severamente la vita trita di ogni giorno, le sue contraddizioni, perché il condannare dà l’impressione di essere esenti da ciò che si condanna. La Chiesa cattolica, pur sempre allettata da tali visioni religiose che promettono facile benessere spirituale, grazie al sacramento del perdono ha conservato una potente ancora ancorata nella vita reale. Forse il confessionale è l’aiuola più vera della Chiesa cattolica, dove tanti virgulti feriti o seccati ritrovano vitalità e sorriso. Ringrazio dal cuore per le 18 ore di confessionale in duomo a Milano durante la settimana santa, senza mai una pausa di cinque minuti.
La testimonianza di Paolo nella prima lettera ai Corinzi sulla risurrezione ci stupisce. Ci stupisce anzitutto perché Paolo deve testimoniare ai primissimi cristiani che la risurrezione di Gesù è un fatto reale, e non pia immaginazione. A circa 30 anni dalla morte e risurrezione di Gesù, come mai questi primi cristiani, discepoli nientemeno che di Paolo e tutti battezzati da adulti, potevano dubitare della risurrezione di Gesù mentre ancora vivevano tanti coetanei di Gesù stesso? Questo dice che la fede nella risurrezione non è scontata per nessuno, nemmeno per chi ha visto il Signore coi suoi occhi. Si può credere alla risurrezione soltanto attraverso un personalissimo balzo dentro la fede. Non c’è risurrezione di Gesù senza la nostra risurrezione. Paolo lo afferma limpidamente: “Se non esiste la risurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto… Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto” (1 Cor 15, 13-16). Paolo credeva nella risurrezione di Gesù perché nella sua vita sperimentava la pasqua del morire e risorgere. Il teologo probabilmente avrebbe affermato che l’uomo risorge perché Gesù è risorto. Il teologo rammenda la vita applicandovi le idee; il testimone spreme le idee dalla vita. Il teologo dice che un comportamento è buono perché lo insegna la religione; il testimone riconosce che una religione è buona perché insegna ciò che la vita e la realtà gli indicano essere buono. Così gli apostoli, senza l’appoggio di qualsiasi tradizione precedente – appoggio che noi invece abbiamo e ricerchiamo – anzi ostacolati dalle legittime autorità religiose del Tempio di Gerusalemme, credettero la risurrezione. Come lo poterono? Perché anch’essi si sentirono risorti.
Possiamo svilire la preziosa festa della Pasqua, riducendola a un evento miracoloso che si addice solo a Gesù perché figlio di Dio. Possiamo, da evento madre dell’esistenza, farne un miracolo riservato solo a uno. Allora, il Cristianesimo si riduce a magnificare un uomo-Dio speciale, e questo riempie di senso di lontananza fra lui, fortunato figlio di Dio, e noi e la realtà che non abbiamo la stessa fortuna. Ma perché ciò può avvenire così facilmente, da sembrare scontato? Credo che avvenga perché noi non accettiamo la morte come qualità intima e nobile, che ci appartiene intrinsecamente. E interpretiamo la risurrezione di Gesù come rivincita sulla morte. La risurrezione come rivincita sulla morte, altro non è che il ritorno indietro alla vita di prima. Non è “novità di vita”, non è “vita eterna”; è soltanto “non morire”, quindi restare così.
Permane in noi il concetto pagano della morte. Francesco la chiamò sorella. Gesù la chiamò: “il momento della mia gloria”. Disse che chi mangia la sua carne e beve il suo sangue risusciterà “all’ultimo giorno”. “L’ultimo giorno”, quando tutti e tutto risorgerà sarà il giorno in cui tutto finalmente ha saputo morire.
ra i mistici della Chiesa, particolarmente il Silesio fu cantore della morte, intima sorella a Francesco d’Assisi. La vita e la morte: le due rive o derive dell’alveo dove scorre la vita eterna. Anche Dio, morendo e risorgendo, è Dio. Infatti, Dio è amore. E chi ama da la vita per gli altri.
“Eternità sono io stesso, quando abbandono il tempo
e me in Dio e Dio in me raccolgo”
“E’ cosa santa la morte: quanto più essa è forte
tanto più gloriosa ne diviene la vita”
“Non credo a morte, alcuna: se muoio ad ogni ora
ogni volta ho trovato una vita migliore”
“Io muoio e vivo Dio: se eterno voglio vivere in lui
devo anche in eterno per lui rendere lo spirito”
“Non muoio e vivo io: Dio stesso muore in me
e ciò ch’io debbo vivere, anch’egli sempre vive”
“Anche Dio deve morire se vuole vivere per te!
Come pensi senza morte d’ereditar la vita”
“La rosa è senza perché: fiorisce perché fiorisce,
a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede”
Quando l’uomo crede talmente in Dio da accogliere la morte come sorella e come porta attraverso cui la vita di ogni giorno risorge alla sua originaria natura di vita eterna, allora l’uomo è beato. Come la rosa che con la stessa naturalezza fiorisce e sfiorisce. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. (Matteo 5,3).
p. Luciano Mazzocchi
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