lettera
Vangelo e Zen
Tuttora, all’equinozio di primavera, il 21 marzo, ci viene spontaneo evocare il detto popolare: “San Benedetto, la rondine sul tetto”. Ma è da una trentina d’anni che la festa di San Benedetto è stata posticipata all’11 luglio. Motivazione: il 21 marzo cade in quaresima e la festa di San Benedetto era celebrata in sordina o del tutto omessa, per privilegiare il clima austero della quaresima. L’11 luglio, invece, quando ferve il primo raccolto dei campi, si presta molto bene a festeggiare il padre di quelle generazioni di monaci che nel Medio Evo bonificarono le terre che oggi producono il frumento e gli altri cereali. Sono le terre della Pianura Padana, della Gran Bretagna e dell’Europa continentale. L’11 luglio le rondini, ritornate da mesi, sono indaffarate a nutrire i piccoli. Tuttavia, lunedì celebrando la liturgia di San Benedetto, il detto popolare mi è ritornato alla mente e mi parve appropriato, prescindendo dalla stagione.
San Benedetto nacque a Norcia nell’anno 480 e morì nel 547 a Monte Cassino. Nel 476 aveva avuto termine l’ultima parvenza dell’impero romano e l’Italia era in balia dei barbari discesi dal Nord Est. Benedetto, figlio di una nobile famiglia romana, ancora adolescente sognò il ripristino della gloria passata e si recò a Roma. Gli fu subito palese l’illusorietà di ciò che sognava e, anziché inveire contro l’oscurità dei tempi, si ritirò in una grotta nei pressi di Subiaco, nel seno di sua madre, la Natura. Trascorse tre anni ascoltando il silenzio. Dal silenzio sgorgò la visione nuova, che egli formulò in una regola di vita. Fu così inaugurata la tradizione monastica benedettina che nei secoli rigenerò nella nostra Italia e in grande parte dell’Europa la speranza di un vivere civile in cui l’aspetto personale e quello sociale si fondono, si integrano. Volle che il monastero fosse il vivaio della nuova società. La tradizionale forma del monastero benedettino è quella di un ampio edificio quadrato, a due piani, con all’interno un ampio giardino circondato ai quattro lati dal chiostro. Il piano superiore è formato dalle celle dei monaci: ogni monaco deve avere lo spazio in cui curare ed esprimere la sua singolarità personale e l’orario del monastero deve garantire uno tempo adeguato a ciò. Il pian terreno del monastero, caratterizzato dal chiostro che percorre i quattro lati, è dedicato agli aspetti comunitari della vita monastica. Nei quattro lati sono collocati i quattro ambienti preposti alla crescita del senso comunitario e sociale: la chiesa, la biblioteca, l’aula capitolare e il refettorio. Così il monaco all’alba, dopo la meditazione personale, si ritrova in chiesa per la preghiera corale, quindi in refettorio per la colazione, poi nell’aula capitolare per progettare di comune accordo l’attività della giornata. La mattinata è dedicata al lavoro agricolo o altro, e il pomeriggio allo studio e a lavori personali, sempre intrecciando i tempi personali con quelli comunitari di preghiera, di refezione e di ricreazione. Il chiostro è l’ambiente in cui i monaci intenti a questo o a quel dovere si incontrano e si salutano con l’inchino. Al centro del giardino interno è il pozzo dell’acqua, a cui tutti peregrinano più volte al giorno, come il bambino alla mammella della madre. Un libro commemorativo sulla città di Parma edito dalla Cassa di risparmio di Parma e Piacenza, fa risalire la nascita del formaggio parmigiano reggiano al monastero benedettino di San Giovanni in Parma. Man mano l’opera di risanamento delle terre procedeva nella Pianura Padana, i monaci dovevano percorrere tragitti più lunghi per recarsi al lavoro e poi ritornare al monastero. Si decise di non ritornare e pernottare nelle cosiddette pievi, chiese rurali. Come conservare il formaggio per tanti giorni di lontananza dal monastero? Salandolo e lasciandolo essiccare! Ci si accorse che col passare del tempo il formaggio si faceva consistente e saporito. Nell’undicesimo secolo un monastero di suore di Genova richiese a un mercante di portare loro il “cacio de Parma”. E’ il primo documento conosciuto sul formaggio grana. Il rapporto con la Natura, il silenzio e la preghiera sono amici delle cose semplici e buone.
Il motto di San Benedetto è noto: “ORA et LABORA”. L’impero romano era allo sfascio e i popoli latini erano sfiduciati. I popoli barbari scesi dal Nord abusavano della loro forza per rapinare e imporre il loro dominio. Benedetto accolse gli uni e gli altri, chiedendo loro di stare assieme osservando una regola che aiuta l’uno e l’altro a far circolare le proprie identità personali nella vita comunitaria di ogni giorno. Collante dello stare insieme di differenze così spiccate: il silenzio, il canto corale, i pasti e il lavoro.
ORA ET LABORA. PREGA E LAVORA. Ogni monaco deve raccogliere dentro di sé ciò che sfacciatamente accade ogni giorno: gli incontri e gli scontri, le pene e le gioie. Deve purificarli, armonizzarli dentro di sé. Il cuore del monaco è il luogo dove la storia si purifica e si rigenera. Per Benedetto la preghiera è questa attività interiore. Così, la realtà riordinata e rigenerata dentro di sé si fa proposta che il monaco condivide con la comunità radunata nell’aula capitolare. Come in un alveare il nettare raccolto dalle varie api viene riposto assieme, così la proposta maturata nella coscienza orante di un monaco diviene consapevolezza e ricerca che continuano a crescere e a fortificarsi nel cuore comunitario. Quando il progetto giunge a maturazione, le mani della comunità si mettono all’opera. Con la gioia e l’agilità del cuore che detta e delle mani che agiscono.
Una telefonata che mi ha raggiunto venerdì pomeriggio mi invitava al Concerto che quella sera si sarebbe tenuto sulle terrazze del duomo. Forse voleva essere una rimunerazione per le tante ore che settimanalmente dedico alle confessioni in duomo. Così ho potuto gustare l’opera verdiana “I lombardi alla prima crociata” in forma di concerto. La brezza che soffiava fresca e lieve, e la luna piena che osservava da lontano fra le guglie, contribuirono ad un ascolto particolarmente attento e disteso. Soprattutto fu commovente la voce appassionata del basso Ruggero Raimondi e della soprano Sabrina Amè. Fu un momento di immersione nella grandezza e nella nobiltà umana. L’uomo può interiorizzare le contorte vicende umane e ridirle nobilitate in melodia. Finito il concerto, ho indugiato alquanto a conversare con la coppia che sedeva accanto, scambiandoci le impressioni e ampliando il discorso sui giapponesi, dopo essermi presentato come loro cappellano. Salutandoli, ho chiesto il loro nome: “Mi chiamo Mario Monti”, rispose l’uomo. Lo ringraziai per l’opera di equilibrio che ha svolto e tuttora svolge nel mondo finanziario italiano ed europeo. Anche la finanza va prima rigenerata dentro la coscienza e poi applicata nella realtà in modo giusto e nobile.
ORA ET LABORA
p.Luciano
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