lettera
Vangelo e Zen
… Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel costato, non crederò”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”.
Sono anch’io, prete, uno dei tanti che, nella messa, recitano “Credo la risurrezione della carne per la vita eterna. Amen”, senza chiedermi realmente che sto dicendo. Io e molti, recitando di credere nella risurrezione della carne per la vita eterna, intendiamo parlare della risurrezione di Gesù, non della nostra. Eppure, chi non conosce la sua risurrezione, nemmeno può riconoscere quella di Gesù. “Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato” (1 Cor 15,13). Così ha testimoniato Paolo, grazie alla forte sua esperienza di risurrezione sulla via di Damasco. La risurrezione non è un privilegio di Gesù, ma una legge intima all’esistenza. Anch’io, anche tu, e tutto ciò che esiste ha l’intima natura di morire e risorgere.
I racconti sulla risurrezione di Gesù registrati nei quattro Vangeli e nelle lettere degli apostoli sono molto succinti. Inoltre sono molto contraddittori: non ce n’è uno che dica la stessa cosa dell’altro. Per Marco, le pie donne, trovato il sepolcro vuoto e ascoltato dall’angelo l’annuncio che egli è risuscitato, spaventate fuggirono via senza dire niente a nessuno. Secondo Luca, invece, tutte contente corsero a dirlo agli apostoli. Fa anche meraviglia che dopo aver visto il Signore risorto, proprio Pietro, il capo degli apostoli, attraversi tutta la Palestina a piedi, quindi 200 chilometri, e ritorni a casa sua, a Betsaida, dove riprende a fare il pescatore (Gv 21). Ci aspetteremmo degli apostoli gasati di entusiasmo dopo aver visto il Signore risorto e invece credono sì, credono no; anzi alcuni ritornano al mestiere che tre anni prima avevano lasciato per seguire Gesù. Prima dell’ascensione gli fecero ancora questa domanda: “Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il regno di Israele?” (At 1,6). L’esperienza della risurrezione non aveva ancora illuminato a fondo la loro esistenza, perché la risurrezione non è un fatto che si conclude in una esperienza, ma è un cammino che procede passo dopo passo.
La prima comunità cristiana, redigendo il Credo che noi recitiamo nella messa, non ha scritto “Credo nella risurrezione di Gesù”, ma “… nella risurrezione della carne per la vita eterna”. Quindi, la risurrezione è un tutt’uno con noi, con la nostra morte. “Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale… Non vi fu prima un corpo spirituale, ma quello animale e poi lo spirituale” (1 Cor 15,45-46). La risurrezione è il passaggio dal corpo animale, di pura vita vegetativa e istintiva, a quello spirituale, nella santità dello Spirito. Gesù risorto, apparso agli apostoli, alitò su di loro lo Spirito e comandò loro di portare nel mondo il perdono e la pace.
Gli apostoli riconobbero la risurrezione di Gesù, non vedendo qualcosa che accadde fuori, ma qualcosa che avveniva dentro di sé stessi. La risurrezione di Gesù destava in loro l’occhio della fede che vede la risurrezione. Se l’uomo non si dischiude al lasciarsi destare, non vede nulla. Del resto anche il cibo diventa energia perché il corpo lo assimila. Così tutti hanno narrato la risurrezione di Gesù in modo differente, perché di fatto ciascuno ha narrato la sua risurrezione. Si direbbe che però Tommaso è giunto a credere per pura grazia ricevuta, dato che fin all’ultimo ha negato di credere. Eppure il credere vuole come presupposto la negazione del credere, perché l’esperienza della risurrezione attraversa la morte, come la luce vuole la tenebra. Tommaso giurava con tutte le sue forze di non credere, eppure era rimasto lì, coi suoi compagni che dicevano di credere, restando amici. Non c’è fede vigorosa che non conosca il dubbio vigoroso. Il primo atto della fede è quello di non scappare via dal dubbio. Si può scappare nel pessimismo, ma anche nel dogmatismo. Sì, perché c’è una fede che appare potente, ma non è risorta. Per una fede risorta non c’è che una via: averla persa e quindi ritrovata, per grazia: nuova e madida di riconoscenza. Quando professiamo: “Credo nella risurrezione della carne per la vita eterna” noi testimoniamo che sia il perdere, che ai nostri occhi appare demerito, sia il ritrovare, che ai nostri appare merito, sono onde della vita eterna. Professiamo che senza l’esperienza del perdere, la nostra fede sarebbe rimasta fredda, altera, capace di condannare. La fede può crescere soltanto nel terreno dell’amore, perché l’amore “è più grande”. Anche Gesù doveva morire e risorgere: e così è il Cristo. Così diviene eucaristia: pane che nutre e vino che rallegra i suoi fratelli in cammino. Doveva morire e risorgere, ma gli apostoli “non avevano ancora compreso la Scrittura che egli, cioè, doveva risuscitare dai morti” (Gv 20,9). Avevano conosciuto Gesù, ma non il Cristo; e fuggirono via. Pur fuggendo si fermarono nella periferia di Gerusalemme: fuggivano, eppure non riuscivano a fuggire. Era l’alba, prima del sorgere del sole.
Michele Do, un sacerdote di Alba che trascorse la sua vita in un eremo sul Monte Rosa, amico di don Marzolari e don Tartaglia, scrisse: “… i discepoli vedevano la luce sul volto di Gesù; dopo la Pasqua questa luce si è interiorizzata in loro. Questo è il grande fatto pasquale: le grandi realtà del regno di Dio sono interiorizzate, sono diventate costitutive dell’essere discepoli. Ormai possono andare nel mondo: la luce è dentro di loro” (Per un’immagine creativa del cristianesimo, pag. 305).
Oggi il popolo italiano sta ignorando l’alba: o tutto è buio o tutto è chiaro, non ostante la predica pasquale che ci regalano le nostre colline e pianure, così variegate nella forma e così variopinte! Nemici dell’alba sono le posizioni politiche, tutto buone o tutto cattive, a seconda da dove si vede. Nemici dell’alba anche le posizioni sociali, sindacati e confindustria in eterno contrasto. Anche la chiesa, con i suoi dogmi assoluti, ha favorito il disgusto verso l’alba. Eppure non c’è che il passaggio dell’alba, fra le tenebre e la luce. L’alba è l’ambiente della fede, quando l’uomo può contemplare insieme la bontà della tenebra e della luce: la tenebra intenerisce la luce e la luce plasma la tenebra in ombre e sfumature. E l’uomo sperimenta in sé la risurrezione che avviene.
Sono profondamente convinto che la causa principale della crisi morale, economica, culturale, spirituale che ci ha investiti è dovuta alla dimenticanza del Vangelo: “State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso… Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate” (Mc 13,33-37). Praticamente la nostra vita è diventata crepuscolare e stiamo perdendo l’esperienza dell’alba. Non facciamo più la preghiera del mattino, ma subito, ancora non svegli, ci buttiamo in macchina o sul mezzo pubblico per raggiungere il posto di lavoro. Non desti, non risorti, il lavoro tende a renderci macchine. La mancata esperienza dell’alba ci conduce a vedere l’esistenza come un tramonto, da prolungare il più possibile. Oggi, la religione, la cultura, l’economia, per risorgere devono ri – esperimentare l’alba. Dobbiamo ritornare a praticare la preghiera del mattino: alla preghiera del mattino vera, non quella simulata con qualche Ave Maria detta in macchina o sul treno. Dobbiamo sostare e lasciarci irrorare dalla rugiada dell’alba. Dobbiamo stare silenziosi, ascoltare un brano del Vangelo, elevare la preghiera. La Cappellania cattolica giapponese durante il Congresso mondiale delle famiglie che si terrà a Milano dal 30 maggio al 3 giungo allestirà, nella sua cappella in P.zza Duomo, una piccola esposizione per testimoniare l’esempio delle famiglie dei cristiani nascosti durante i due secoli e mezzo di persecuzione, a Nagasaki (1612 – 1867). Senza sacerdoti, senza chiese, in un’epoca durissima, il papà battezzava i figli e la famiglia durante la notte vegliava la speranza del regno di Dio, pregando.
Nella nostra comunità, Alessio, Raul e il sottoscritto, a volte si aggiunge anche Paolo, ogni mattina ci sediamo in zazen, ascoltiamo il Vangelo ed eleviamo la preghiera. Prima di concludere con il Padre Nostro, ricordiamo sempre gli amici che conosciamo e coloro che non conosciamo. Nel mentre il sole distende la sua luce sulle cose.
“Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole…” (Mc 16,2).
Pasqua 2012. Battesimo di Minoru Hirasawa e di Inao Miura presso la Cappellania giapponese di Milano.
Il battesimo è il sacramento dell’alba.
Inao Miura, nome di battesimo Anastasia, da decenni opera in un centro contabile.
Minoru Hirasawa, nome di battesimo Pietro, in Milano gestisce due antichi ristoranti giapponesi: POPOROYA e SHIRO. Accoglie ogni ospite con un cordiale sorriso.
p.Luciano
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