Un violento rovescio di pioggia con grandine fine si è abbattuto su Desio, all’improvviso. Come tanti altri malcapitati, anch’io ho trovato rifugio sotto l’arco dell’ingresso di una casa. Anche se inzuppato fino alle ossa, ho ringraziato la pioggia per quel po’ di freschezza che ci ha regalato.
Il Vangelo di domenica 22 luglio riporta la domanda rivolta a Gesù dai discepoli Giacomo e Giovanni. Chiesero al maestro di riservare per loro i primi due posti nel paradiso. Gli altri discepoli, che avevano udito, s’infuriano contro i due colleghi pretenziosi e ne nacque un litigio. Gesù li chiamò tutti a sé e disse: “ Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo? O ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. I due rispondono di sì. Allora Gesù, di nuovo: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. ..”. Quindi, rivolto a tutti i discepoli: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così: ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore… Il figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita…” (Mc 10, 35-45).
Come sono diversi gli atteggiamenti di Gesù e dei discepoli di fronte al fatto di esistere! Gesù, la vita la sente come un destino da accettare e in cui buttarsi; i discepoli, invece, prendono la vita come una scalata per raggiungerei dei privilegi.
“Bere il calice” e “ricevere il battesimo” sono due espressioni bibliche che significano, appunto, accettare il proprio destino incondizionatamente. Con un aforisma comune potremmo dire: mandare giù il proprio destino, come una medicina amara. Noi ci siamo fatti un’immagine di Gesù a nostro uso e consumo: un essere celeste venuto sulla terra, dotato di scienza infusa per cui conosceva tutto e nulla poteva turbarlo. Invece Gesù parla di se stesso come di chi è nella situazione di dover bere un calice che gli è fatto bere, e di doversi immergere in una missione che gli è assegnata e che lui deve ricevere. Gesù, davanti all’esistenza, si sentiva come un pellegrino. Piuttosto i suoi due discepoli trattavano la vita come un affare per guadagnarsi due bei posti. Noi abbiamo chiamato Gesù figlio di Dio. Lui si dice figlio dell’uomo: infatti si sentiva destinato a servire gli uomini, fino a dare la vita.
L’immagine del calice da bere o del battesimo da ricevere che Gesù applica a se stesso dicono chiaramente che egli riconosceva la sua esistenza non tanto partendo dalla sua libertà personale, ma dalla necessità di obbedire a una missione. Per lui la vita non è tanto libertà, come noi intendiamo, ma obbedienza alla necessità. In altre parole, lui non fa il Cristo per sua libera scelta, ma per obbedienza a una missione necessaria. Noi, fautori della libertà personale come a noi piace interpretarla, questa pagina del Vangelo può sembrare oscurantistica.
Una donna che ha vissuto pienamente la sua libertà personale fu Simone Weil. Nata in famiglia ebraica, dopo aver aderito al marxismo indirizzò il suo cammino umano e religioso verso il Vangelo di Gesù di Nazareth. Si innamorò della comprensione cattolica del Vangelo, soprattutto della religiosità eucaristica. La partecipazione alla messa era per lei profonda consolazione. Non ricevette il battesimo, semplicemente perché – lei scrive – la chiesa cattolica non è veramente cattolica. Sto leggendo un suo scritto, dal titolo “La Grecia e le intuizione precristiane”. Weil nei suoi scritti parla spesso della necessità come sinonimo della libertà divina. L’affermazione cozza contro il nostro scontato buon senso. Afferma che la necessità è la via, lo stile della libertà di Dio. Ossia, Dio accompagna e guida l’uomo in modo libero attraverso la legge della necessità. Dio non insegue l’uomo nel suo operato, anche se sbanda. Però, quando l’uomo si blocca intrappolato dentro le conseguenze dei suoi atti, là Dio lo attende, lo persuade del suo errore e lo chiama al cambiamento attraverso la legge della necessità. La voce di Dio è quella tenue, discreta e altrettanto inflessibile, della necessità. “Dio non fa violenza alle cause seconde (alle cose) per compiere i suoi fini. Compie tutti i suoi fini attraverso il meccanismo inflessibile della necessità , e senza alterare un solo ingranaggio”[1].
Se, guardando indietro la propria vita, mi domando quali furono le esperienze salienti attraverso cui maggiormente sono giunto ad essere ciò che ora sono, vedo chiaramente che ciò che ha realmente cambiato e rinnovato la mia vita fu la necessità. Ossia, ho potuto andare oltre i miei consueti parametri quando la vita mi ha intercettato il cammino con il muro della necessità. In altre parole, quando ho dovuto necessariamente cambiare. Quando invece, pur nel cambiamento, il mio io è rimasto seduto sul suo trono a guidare il cambiamento, di fatto cambiavo dei modi, ma non me stesso. Cambiavo vestito. Credo che Weil direbbe: ti sei cambiato tu a tuo piacimento, ma non fu Dio a cambiarti. Nel Vangelo di domenica 29 luglio (Mc 8, 34-38), Gesù dice ai discepoli e alla gente: “Chi vuole venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce … “.
La vita, a sua volta seguendo la legge della necessità, ci viene incontro a persuaderci ad aderire al Vangelo, a seguire Gesù. Quanta scontentezza disseminata nella nostra vita, perché nel nostro modo di ragionare attorno alla vita partiamo dalla nostra libertà personale, e non dalla scuola della necessità. Non ostante l’evidenza della nascita fisica che precede ogni atto del nostro libero arbitrio, tendiamo a cogliere noi stessi anzitutto come esseri liberi, prima che come esseri necessari. La libertà non fondata sulla necessità è come un albero senza radici. Un albero senza radici, al soffio del vento non fa altro che cadere nel soffio del vento.
Ciò che della nostra vita è necessario è la parte pura, genuina, essenziale di noi. Nulla di aggiunto né di sottratto: solo ciò che è necessario! L’uccello che non nulla in più né in meno, vola. E il Vangelo mi annuncia che anche il mio peccato è necessario, perché in quel pentirmi per non peccare più io divengo più puro, più genuino, più essenziale. Porto con me meno zavorra mentre, se rimango innocente, potrei appesantirmi col vanto! Nella rosa la spina è necessaria come il fiore. La necessità è la madre dell’umiltà. Mai nessuno è diventato umile per sua virtù, ma solo per necessità. Altrimenti quell’umiltà sarebbe pesante di fregi e di stellette.
Nella fede so che sono figlio di Dio. Dio è necessario, così anch’io, figlio, sono necessario. La parte necessaria di me, che quindi non viene da me, è quella universalmente preziosa. E’ divina. Voglio vivere con cuore libero la necessità che mi fonda! Voglio bere il calice e ricevere il battesimo che devo ricevere. E so che la necessità che mi fonda è pura libertà in Dio. Abitando in Dio, sento la necessità che mi fonda come mia stessa libertà.
Anche l’economia fondata sul libero mercato tradisce. Convertiamola alla serietà di realtà necessaria. “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune… Nessuno tra loro era bisognoso… e veniva distribuito a ciascuno il necessario” (At 3 e 4).
p. Luciano
[1]Simone Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, 2008, p. 109
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