Pentecoste 2013
Le fragole, che da qualche settimana compaiono sulle nostre tavole, sono grosse, acidule, di forma scomposta. Sono cresciute in serra. Fra due mesi nei prati dell’Appennino, seminascoste sotto l’erbetta, matureranno tante fragolette, delizia degli insetti e anche di pochi avventurieri umani. Matureranno nel sole, nel vento, nella pioggia. La religione può essere una serra; oppure un campo aperto. La religione può essere osservanza dettata dalla paura; oppure cura e attenzione che germogliano dalla libertà.
Gesù passava la notte solo sulla montagna e il giorno in mezzo alla gente. I suoi discepoli poterono crescere in campo aperto, esponendo la loro natura selvatica al sole, al vento alla pioggia del Vangelo. Durante l’ultima cena, dopo aver mangiato il pane spezzato e bevuto al calice della nuova alleanza, poche ore prima che il maestro fosse arrestato, ancora poterono litigare per il primo posto, secondo la loro natura selvatica. E fu la loro natura selvatica che poi maturò alla fortezza di dare la vita per il Vangelo annunciato dal maestro. A una condizione: che il maestro si sottraesse da loro, rimanendo soli, coi propri limiti, e con il seme del Vangelo gettato nel terreno della loro esistenza. Disse loro:
“Ora vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito… Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutt’intera…” (Gv 16).
La maturazione cristiana non è la sequela di Gesù, ma la figliolanza divina a cui il cristiano matura camminando oltre la sequela del maestro. Molti cristiani rimangono seguaci di Gesù, ma non maturano a figli di Dio. Osservano la religione, ma non maturano alla libertà. Quando il Signore parte, s’accasciano nel rimpianto, anziché far fiorire e maturare i semi del Vangelo che il Signore ha gettato nella loro vita. Un po’ come una mamma che rimpiange la figlia che si è sposata, o la figlia sposata che rimpiange la madre. “Ora vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada…”, disse e partì.
“Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio…” (Rm 8,16). E’ questa la testimonianza che il persecutore Saulo, convertito e divenuto l’apostolo Paolo, ci ha scritto nella Lettera ai Romani. Faccio notare che lo scrivere “spirito” a volte con la maiuscola, quando indica lo spirito di Dio, e minuscola quando indica quello dell’uomo è opera del traduttore italiano. L’uomo prende paura, e preferisce collocarsi in posizione secondaria. Soprattutto faccio notare che la traduzione figli adottivi non corrisponde all’originale greco che dice: uiothesias, ossia figliolanza. Nello spirito noi siamo figli originali, non figli acquisiti.
Il passaggio dalla sequela alla figliolanza avviene attraversando uno spazio in cui la presenza del maestro non è più e la figliolanza divina non è ancora. E’ il momento del vuoto, il più creativo. In quel vuoto non c’è alcun appoggio. Ogni appoggio sarebbe un rimpianto del passato se cercato guardando indietro, oppure una bramosia se cercato nella nuvolaglia della mente. Occorre attraversare senza appoggiarsi. In quel momento l’uomo è libero e trae l’energia solo da dentro di sé, dal suo spirito. L’atto libero, senza l’appoggio del calcolo e della necessità, è atto creativo, che dà origine a ciò che ancora non è. E’ atto di fede: mette in atto creando, e non ricavando da ciò che già c’era. In quel momento l’uomo è cuore che palpita la vita nell’universo.
Gesù chiamò lo Spirito: il Paraclito, ossia l’amico avvocato, o l’avvocato amico. E’ l’avvocato e amico che mi sostiene con la sua compagnia se, attraversando il vuoto, prendo paura e vorrei far ritorno al semplice ricalcare le orme del maestro. E’ l’avvocato che difende la mia libertà, quando solo di mio devo creare le scelte della vita. Lo Spirito fa da scudo alla mia libertà e col suo soffio l’incoraggia ad attraversare il vuoto. E’ il Paraclito. Gli antichi filosofi amavano dire che lo spirito dell’uomo è una fiammella del grande fuoco che è lo spirito universale. Il sole è fonte di incommensurabili raggi di luce e di calore. Nell’immensa aureola che avvolge il sole si frappone la pallina che è il pianeta Terra.
Quell’infinitesimale fascio di raggi solari che batte sulla superficie terrestre si rifrange sui corpi opachi e lambisce i miei occhi di carne. I miei occhi di carne si aprono e vedono le forme e i colori che sono i raggi del sole rifratti dai corpi opachi. Poi i miei occhi si chiudono, e allora si apre un altro occhio che interiorizza quanto l’occhio della carne ha visto. Non vedo, eppure vedo l’universo da cui il sole sì è formato e in cui rotea le sue orbite. Riapro gli occhi e vedo le gocce di rugiada posate sulle foglie. In ogni goccia si riflette il garnde sole.
Gli apostoli non videro più il maestro, a loro sottratto dalla morte e dalla sua decisione di far ritorno al cielo. In quella solitudine si aprì loro l’occhio della fede e cominciarono a vedere quanto si vede non vedendo più. Cominciarono a vedere la vita divina che scorreva nelle parole e nei comportamenti del loro maestro che non vedevano più. Cominciarono a vedere l’infinito invisibile di quell’uomo. Di riflesso cominciarono a vedere l’invisibile di se stessi, degli altri, delle cose. Sperimentarono che quando non ci si può appoggiare a nulla, quando si è profondamente soli, quando non ci resta che essere liberi, proprio allora si è in comunione con tutto l’universo, come goccia di rugiada che rifrange i raggi del sole. Un unico spirito che chiamo Spirito partendo da Dio, che chiamo spirito partendo dall’uomo e dalle cose, anima Dio e l’uomo, e le cose. Nello Spirito, spirito, tutto ciò che è Padre, padre, genera il Figlio, il figlio. Nello Spirito, nello spirito, tutto ciò che è Figlio, che è figlio, ritorna al Padre, al padre. Nello Spirito, nello spirito, nulla esiste per se stesso, ma tutto è vuoto di se stesso, ed è pieno di amore.
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A seguire un brano della lettera che ultimamente ho inviato ai soci dell’associazione Vangelo e Zen (chiunque si sente profondamente legato può chiedere di farne parte). Riporto questo brano, perché può servire per cogliere lo spirito che anima il nostro cammino.
“Prima della pausa estiva, come negli anni passati, mi è caro scrivere una lettera in cui riferire a voi alcune mie riflessioni tratte dall’esperienza dell’anno passato, guardando verso il futuro. Speranze e perplessità che riportano sempre di fronte alle domande di fondo: Vangelo e Zen cos’è? Cosa fare da qui in avanti?
“Cos’è Vangelo e Zen?”. La risposta più ovvia sembra: “E’ il cammino di alcuni cristiani in dialogo con il buddhismo Zen”. Chi vede dalla sponda buddista potrebbe semplicemente invertire la stessa frase. A questa risposta l’interlocutore potrebbe incalzare e chiedere perché un cristiano debba dialogare con un’altra religione; non gli basta la sua? Dall’altra sponda è possibile la stessa replica. Oggi, il discorrere così del dialogo mi appare un trastullo per evitare la domanda di fondo, che non verte a investigare a quale religione io appartenga, ma a che cosa io realmente sia. Sono quindi le religioni che devono confrontarsi con le domande fondamentali dell’uomo e verificare se il loro messaggio ne è all’altezza o no. Gesù disse: “Non è l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo”.
Vangelo e Zen sono sponde che accompagnano il mio cammino; ma a camminare sono io. Comunicano con la mia esistenzialità attraverso due appuntamenti molto semplici e altrettanto efficaci. Sono lo Zazen e l’Eucaristia. Lo Zazen mi purifica, l’Eucaristia mi vivifica. Lo Zazen è meditazione nel vuoto eterno in cui scorre questo mio esistere; l’Eucaristia è convivio di amore in cui la mia individualità si scopre unicità preziosissima nella comunione universale. Lo Zazen mi scioglie; l’Eucaristia mi edifica. Funzioni opposte che, in me, si verificano reciprocamente: più lo Zazen mi scioglie, più l’Eucaristia mi edifica, non dal mio io, ma dalla comunione universale nella quale lo Zazen mi scioglie.
“Sono vuoto! E tutto ciò che è attorno a me è vuoto!”. Io sono il vuoto che ero prima di essere concepito all’esistenza, il vuoto che permane tuttora lungo il cammino dell’esistenza, il vuoto che sarò dopo la mia morte. La memoria che sono vuoto mi restituisce la naturalezza perduta negli attaccamenti. Mi educa a essere presente, senza attaccarmi. Nel “vuoto” tutto è gratuità. Tutto è religiosamente “casual”. Tutto è libero da ansia.
“Sono comunione! E tutto ciò che mi circonda è comunione!”. Sono comunione universale; fuori dalla comunione non sono. Sono comunione con il corpo che mi ha generato, con i corpi viventi che mi nutrono, con la terra o con il fuoco che attendono il mio corpo esanime per restituirlo alla comunione universale. Ora, sono questo attimo in comunione con l’eternità; sono questo limite in comunione con l’infinito; sono questo frammento di verità in comunione con la verità tutta intera. Nella comunione è santa la virtù che redime il peccato ed è santo il peccato che educa la virtù all’amore; è santa la luce che rischiara la tenebra, ed è santa la tenebra che rifrange la luce nei colori. Nella comunione nulla esiste per se stesso, ma è veramente se stesso ciò che non esiste per se stesso. Sono relazione comunionale. Tutto è relazione comunionale. “Dio è amore”.
Il Vangelo e lo Zen, passo dopo passo, mi conducono a casa.”
p. Luciano
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