Carissimi, a breve distanza una nuova lettera, continuazione di quelle precedenti. Chi vuole può leggerla quando ha un po’ di tempo libero, anche in seguito. Grazie.
Avviso inoltre che il 1 febbraio è il primo sabato del mese: il ritiro ha il seguente orario:
05,00 zazen (2 sedute di 50 minuti); 06,50 vangelo – lode; 07,40 pulizie – colazione; 08.50 messaggio Zen; 09,30 zazen (3 sedute); 11,20 preghiera del mezzogiorno – tempo personale; 12,30 pranzo; 13.30 lavoro; 15.00 zazen (2 sedute di 40 minuti); 16.30 eucaristia;
17.30 momento di familiarità.
N.B.
1) E’ possibile venire la sera di venerdì e pernottare.
2) E’ possibile aggiungersi dalle ore 08,50, alle 13,30 o alle 15,00.
Si prega di non suonare al campanello mentre siamo in meditazione o preghiera.
Grazie. p. Luciano
La Colomba e il Corvo
Sono arrivati i giorni della merla e, puntualmente, anche il freddo. A tutti l’augurio di attraversare il freddo in un rapporto di prudente amicizia.
Domenica scorsa, 26 gennaio, papa Francesco ha salutato dalla finestra del palazzo vaticano, come consuetudine, i pellegrini riuniti in Piazza San Pietro. Al termine del discorso due ragazzi che gli stavano di fianco hanno liberato due colombelle bianche, segno di innocenza e di pace. Il papa e i ragazzi non si accorsero di nulla, ma gli attenti fotografi hanno ripreso la scena di un corvo e di un gabbiano che hanno aggredito le due colombelle: una riuscì a liberarsi, ma l’altra ne rimase preda.

Tutti noi diciamo: la colombella è la vittima innocente! I predatori sono cattivi! Eppure sta scritto: “Dio creò… tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona” (Gn 1,21). Il salmista ha cantato: “Lodate il Signore…, Egli… provvede il cibo… ai piccoli del corvo che gridano a lui”. Cibo del corvo è anche la bianca colombella. L’equilibrio idealizzato è idilliaco; quello reale è severo.
Le considerazioni che molti mi hanno condiviso alla lettura delle ultime lettere mi convincono a offrire una ulteriore considerazione. Vorrei sondare il contenuto di una frase di Gesù che ricorre nelle messe dell’inizio di ogni anno. Sia per il suo duro contenuto, sia perché è riportata identica nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca, da tutti è ritenuta una espressione autentica di Gesù. Nessuno avrebbe osato inserirla nel Vangelo, se Gesù non l’avesse detta. Eccola secondo il Vangelo di Marco (4, 10-13):
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Sempre ci è detto che Gesù è venuto affinché i ciechi vedano, i sordi odino, i peccatori si convertano e sia loro perdonato. Eppure qui Gesù afferma di parlare in parabole, ossia in modo velato, affinché chi guarda non veda, chi ascolta non comprenda, quindi non si converta né gli venga perdonato.
Le dure parole di Gesù hanno a monte il dato di fatto che l’uomo può guardare come se vedesse, mentre non vede; può ascoltare come se comprendesse, mentre non comprende; può fare un cammino religioso come se si convertisse, mentre di fatto non si converte; può ritenersi perdonato e abbracciato dalla misericordia di Dio, mentre ne è fuori. Insomma, è sempre possibile fare un serio cammino di fede come se fosse vero, mentre è finto. Tutto questo senza accorgersene, forse rimanendo tranquilli, perché l’assuefazione atrofizza ogni critica interiore al suo sorgere, per cui nemmeno se ne avverte più il disturbo. Ci si sente apposto.
Ovviamente in tutte le attività umane è possibile apparire veri, senza essere veri. All’origine dell’inganno sta il rapporto originario che ciascuno ha verso la verità. Sta il suo concetto stesso di verità. Sta la sua stessa attesa che nutre verso la verità. Scendendo ancora di più nel profondo, si deve riconoscere che all’origine sta il rapporto che ciascuno ha con se stesso, con il suo esserci. Chi non ha mai sostato a domandarsi: che cosa sono io? Chi non ha mai percepito che lo stesso esistere è una parabola in cui infinito e finito confluiscono, o non ha mai urtato contro il limite del suo conoscere perché non ha mai riflettuto al punto di giungere al limite di qualcosa, costui indisturbato ritiene che la verità sia una cosa statica come statica è la sua vita.

Chi sa stare nell’inquietudine della sospensione nel vuoto in cui si libra la sua esistenza, riconosce che proprio la parabola è la veste in cui la verità si accosta a sé. L’occhio non può fissare la fonte della luce, ma gusta il rifrangersi della luce nei colori. La fonte della luce si rifrange sbattendo contro un corpo opaco che la respinge riflettendola. Così l’uomo incontra la verità quando questa, urtando contro i lati opachi dell’uomo, si rifrange in scintille di verità e qualcuna di queste colpisce il suo occhio. La verità giunge sempre rivestita delle parabole del tempo e dello spazio.
Bisogna aver gustato il passaggio attraverso il vuoto sostenuti solo dall’audacia interiore della fede e della libertà, per familiarizzare con la verità che si lascia baciare solo se accolta senza vederne il volto. Anzi, senza la pretesa di esaurire la visione del suo volto. Chi incontra la verità come lo svelarsi della parabola della propria vita, quando ne sente il calore congiunge le mani, ringrazia e percepisce una profonda conciliazione con la propria vita, anche con le sue curve o aspetti opachi che rendono visibile la luce rifrangendone i raggi.
La verità incontrata sotto le vesti della parabola, rimane rivestita di parabola anche dopo averla incontrata. Anzi, si fa sempre più invisibile come oggetto degli occhi. Cessa anche la smania di cercarla, perché la si sente palpitare dentro la vita e le cose che capitano.
Le colombelle sono innocenti, ma anche il gabbiano e il corvo sono innocenti. Il predatore è anche in me. Sento che i miei aspetti opachi di predatore sono la curva parabolica che riflette quell’intensa luce che mi fa visita quando chiedo e ricevo il perdono. Sento il mio peccato come il velo che copre la verità, ma coprendola me ne svela il luogo. Sento gioia ogni qualvolta ricevo il perdono.
Un invito ai fratelli e alle sorelle che ricercano la verità come sicurezza, a dare un bacio ai loro limiti, perché la verità che incontreranno sarà sempre filtrata dai loro limiti. Altrimenti essa li abbaglierebbe. La verità è buona e arriva sempre riflessa dai corpi opachi. Arriva sempre attraverso la parabola dei colori.
Come abbagliano le sicurezze! Sia quelle del religioso, sia quelle dell’ateo. Uno può affermare di essere sicuro che c’è Dio. Un altro, l’ateo, con la stessa sicurezza può asserire che non c’è. Ma le sicurezze, tutte, sono avide e assorbono l’intera iride della luce, senza riflettere alcun raggio.
Ciò che per apparire vero necessita di essere ripetutamente tenuto su, ripetutamente studiato, ripetutamente affermato, ciò che non sta in piedi se non è continuamente riproposto dalla propria consapevolezza, questo sforzo immane per non cedere può celare che mai ci siamo scostati dal proprio egocentrismo. Mai abbiamo oltrepassato il confine delle nostre vedute e misure.
“Quando io voglio qualcosa con tutte le mie forze, c’è una rottura del ritmo…”
“E parole come Dio e Morte e Dolore e Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade…”
(dal Diario di Etty Hillesum)