Che senso ha coinvolgere il Vangelo e lo Zen nel mio cammino esistenziale?
Dalla mia esperienza Vangelo e Zen sono come le due orme dei miei passi. Oppure, sono come le orme dei miei due piedi. Camminando imprimo nel terreno le orme e queste, susseguendosi, delineano il sentiero. Praticando Vangelo e Zen, il mio vagare esistenziale ricama una traccia, la mia traccia. La osservo e mi rendo conto di essere qui, adesso, in cammino. Non conosco il prima, non vedo il dopo; ma il sentirmi qui, adesso, mi conforta.
Vangelo e Zen sono le sacre custodie della solità e dell’alterità che permeano la mia esistenza. Come due sponde, contrapponendosi, delineano il sentiero lungo il quale io cammino, libero. Nella dinamica relazione tra solità e alterità scorre l’essere, come la luce si effonde dall’urto tra una corrente e una resistenza che la contrasta. E la luce non è né la corrente elettrica, né la resistenza che vi si oppone. E nemmeno è solo la relazione fra corrente e resistenza. La luce è la luce, è la novità che risorge dalla reazione fra corrente e resistenza. Grazie alla dinamica reazione tra solità e alterità io sono qui, in cammino. Sono individuo. Sono fratello universale. Sono contemporaneamente individuo e fratello universale. Sono figlio di Dio. Figlio – Dio.
La paura o l’attaccamento verso la solità diviene solipsismo; la paura e l’attaccamento verso l’alterità diviene dipendenza. Il Vangelo e lo Zen mi accompagnano a camminare tra le due sponde, senza indugiare verso l’una o verso l’altra. La loro relazione, meglio la loro reazione, custodisce il mio camminare libero senza cadere nel solipsismo né nella dipendenza. Custodiscono: io sono in qui, libero, in cammino.
Lo Zen mi dà la sua mano: questa è la pratica dello Zazen. Lo Zazen in ogni istante della vita mi restituisce al fondo della mia solità. Quel fondo è vuoto, gratuito. Rituffandovi, ritrovo la purezza originaria.
Il Vangelo mi dà la sua mano: è Cristo. Cristo redime la mia solità dalla tendenza alla solitudine, e la dischiude alla relazione, al senso, alla speranza. Il perdono e l’amore erano, da sempre, segretamente innati nel cuore della mia solità. Cristo li libera.
Solità e alterità! Alterità e solità! Due opposti, un solo palpito.
La pratica dello Zazen custodisce in modo santo la solità che io sono. L’ascolto del Vangelo custodisce in modo santo l’alterità che io sono. Più la solità è pura, e più l’alterità è feconda.
LA MIA SOLITA’, la mia prima esperienza
RICONOSCO DI ESISTERE. Non c’è alcuna spiegazione e motivazione proveniente da fuori della mia esperienza che abbia l’autorità di convincermi che esisto. Nessuno può sostituirmi, nell’accettarmi esistente. Nemmeno Dio, nemmeno Buddha. Nemmeno il Vangelo, nemmeno lo Zen. Un giorno, sarò io a dire e riconoscere i loro nomi. E, questo io che dirà i loro nomi, resterà pur sempre l’io che io ho riconosciuto, accettandomi con il mio destino di esserci.
E’ da questa esistenzialità sperimentata sempre più stringente col passare degli anni che io pratico lo Zazen e celebro l’Eucaristia. Praticandoli, mi ritrovo nella mia esistenzialità. E la amo e ne ho cura.
Nello Zazen io mi riconosco solità esistenziale originaria, non derivata, non carente di qualcosa né padrona di qualcosa d’altro. Sono qui, adesso. Esisto senza sapere nulla in più che il reale fatto di esistere. “L’obiettivo non è scacciare i pensieri: la cosa veramente importante è rimanere svegli, tornare a essere svegli ogni volta, che ci perdiamo nei sogni” . Sogno, nel linguaggio buddista, è tutto ciò che ci porta fuori da quello che realmente siamo. Lo Zen è un forte ammonimento che anche quando io dico Dio, sono io che dalla mia esistenzialità formulo quel nome. Non fosse così, sarebbe un nome che esula dall’esistenza, illusorio. Sono prete cristiano e missionario del Vangelo e, oggi, sento la pratica dello Zazen come una prevenzione dalla tendenza a dimenticare che anche quando predico Cristo, se non attingo dalla mia esistenzialità, semplicemente racconto a vanvera. Non solo; ma se pure attingo, sì, dalla mia esistenzialità, ma lo dovessi fare con forzature mentali o morali, sarebbe segno che qualche virus alieno ha inficiato la purezza della mia esistenza, come a volte accade che una impurità inquini l’acqua della sorgente.
Pratico lo Zazen, perché mi risveglia alla memoria della mia solatia esistenzialità, della mia fragile e preziosa unicità. Pratico lo Zazen, perché con tale pratica pongo nuovamente l’atto di fede esistenziale: SI’ ESISTO ED ESISTO COSI’. Eppure lo Zazen rimane una pratica inutile, ossia non adduce alcuna utilità sopraggiunta al nudo fatto del mio esserci. Mio padre e mia madre hanno venerato e consacrato la loro esistenzialità in modo talmente semplice che non hanno avuto alcun bisogno di compiere alcuna pratica particolare, oltre al loro esserci con tutto se stessi.
LA MIA ALTERITA’, esplode dal cuore della mia solità
Amo e ho cura della mia solatia esistenzialità e raccolgo me stesso nel silenzio meditativo. Allora la mia esistenziale solità, amata e curata, in silenzio mi rivela il segreto della sua intima natura. E’ il suo opposto, è l’alterità. Sì, raccolto nella mia solitudine esistenziale, mi sperimento abbracciato dal tutto. Solissimo, mi sperimento fratello minore nella comunione universale. Lo Zazen mi tiene nobile nella mia nuda solità. Nudo, il sole mi riscalda, la pioggia mi irrora, il vento mi sferza. Odo il grido di dolore dei fratelli che soffrono, e odo il grido di esultanza dei bambini che giocano. “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri” (Rom 12,15-16).
Ascolto la mia solità e odo il riverbero dell’alterità. Seguo la eco dell’alterità e ritorno alla mia solità. Solità e alterità: le orme dei miei passi.
Cristo è l’unzione con l’olio che lenisce il rapporto fra solità e alterità. Lo lenisce dentro di me, quando vorrei chiudermi nella mia solitudine o, al contrario, vorrei svendermi alla dittatura di quanto gli altri dicono. Rende il rapporto fra gli opposti che costellano il mio sentiero esistenziale, forte e morbido, saporito e profumato, caldo e luminoso. Non è qualcosa che proviene da fuori, ma come la goccia d’olio si spreme dalla drupa, così la cristicità trasuda dalla croce della consistenza e della non consistenza di questo mio esistere. Cristo è un nome che risuona dal silenzio della mia esistenzialità. La sua posizione è la croce: legame fra cielo e terra, e fra orizzonti opposti. La croce è sospesa nel vuoto e contemporaneamente è piantata solidamente nella terra della realtà. Il bene si offre e, morendo, redime il male. Il male muore e risorge nel bene. La luce illumina la tenebra e la tenebra mette in risalto la luce. I nipoti giocano e i nonni li contemplano seduti sulla panchina. Nessun sé rimane prigioniero di se stesso. Anche l’amore, morendo, genera il perdono, altrimenti rimarrebbe amore recintato nel soggetto che è io che amo. L’amore resterebbe merito, anziché gratuità.
La sofferenza è cristica. Ha un senso nascosto ai miei occhi superficiali, ma con l’occhio della fede che sonda nel profondo della mia esistenzialità, posso intravederne la reale presenza. La sofferenza è da lenire, ma nessun lenimento la scioglie. La sofferenza ha una santità redentiva. La sofferenza del verme schiacciato dal mio piede non cade invano.
Solo intravedo; ma dalle fibre della mia esistenzialità CREDO. La sofferenza di ogni bambino morto di fame, è custodita, è preziosa. Anche questo mio stesso dire ha in radice una energia spirituale che fluisce a me dalla altrui sofferenza. Da quella di mia madre che mi ha portato in seno 9 mesi, mi ha partorito e allattato, alla sofferenza di chiunque con il sacrificio ha riversato cura sul mio destino di essere qui. Il messaggio che ogni sofferenza ha intima e nascosta una dignità redentiva mi evidenzia cristiano dalle fibre della mia esistenzialità. Sono cristiano da prima di ascoltare il Vangelo, da prima di ricevere il battesimo, perché questo Vangelo è da sempre nelle fibre del mio esistere. Pratico lo Zazen e celebro l’Eucaristia. La mia solità e l’alterità si abbracciano. Camminano insieme imprimendo le loro orme. Mai l’orma di un piede coincide con quella dell’altro. Eppure sono l’unico sentiero. Sono io. Sono l’universo.
p. Luciano
[1] Yushin Marassi – Matteo Zani, Incontrarsi al cuore, Pazzini editore, p. 45
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