Un curioso ricordo. Anni 1955-60, secondo una secolare tradizione nel Seminario Vescovile di Parma i giovani seminaristi, tra loro il sottoscritto, anche quando giocavano al pallone, indossavano la talare. Questa, la cosiddetta veste da prete, aveva 33 bottoni e, ovviamente, altrettante asole. Forse il numero presumeva evocare gli anni di Gesù. Alla sveglia del mattino, indossata la talare, partiva l’operazione dell’abbottonare: uno, due, … trentuno, trentadue… Ancora uno! Ma ohimè: c’è il bottone ma l’asola no! Che fare?
Quante volte nella vita ci capita di accorgerci dell’errore soltanto arrivati in fondo. A metà percorso si va avanti super sicuri, forse un po’ stizziti per tutti quei bottoni che ritardano l’arrivo. Non poche volte ci si butta nel giudizio o nell’attività senza aver abbottonato fino in fondo. Il non andare fino in fondo alle cose ci permette di conoscere le cose, le persone ecc. soltanto dal punto da cui noi le vediamo mentre le stiamo trattando, ma non arriviamo a conoscere quanto le cose ci dicono o ci rispondono quando noi ci fermiamo e le lasciamo parlare.
La lettura di un libro fino in fondo spesso è più feconda di conoscenza che non il dialogo faccia a faccia. Sì, perché leggendo fino in fondo un libro si ascolta un’altra voce, un’altra opinione lasciandola parlare fino in fondo. Così sono anche i rapporti umani.
Riconosco che la mia fede in Dio, in Gesù, nella Chiesa, nell’umanità, nel cosmo nasce proprio dall’andare fino in fondo ai dubbi che innumerevoli e persistenti mi impediscono di credere. Ne vado fino in fondo e quindi ascolto il silenzio dell’essere arrivato fino in fondo senza nulla in mano. E’ proprio questo nulla in mano che mi dischiude ad ascoltare la voce che non è il ronzio delle mie idee. Ogni qualvolta penso di aver afferrato un sicuro motivo per credere senza dover andare fino in fondo, e lo brandisco come trofeo di vittoria, la mia umanità si scompone, si inebitisce, si incattiva. Non c’è che la cattiveria per brandire sicurezza senza essere andato fino in fondo e aver permesso alla realtà di dire la sua parola.
In contemporanea con i tre volumi sulla “Storia del Cristianesimo” di Ernesto Bonaiuti, in questi giorni ho letto pure “I quattro maestri” di Vito Mancuso (Mondadori), libro di oltre 500 pagine di cui una persona amica mi aveva fatto dono. I quattro maestri sono: Socrate, Buddha, Confucio e Gesù. Una delle affermazioni più convinte di Mancuso su Gesù, in consonanza con altri teologi che cita, è questa: Gesù “era un ebreo, non un cristiano” (pag 354), e “il Gesù dei Vangeli non è il Gesù storico” (pag. 336). Potrei scandalizzarmi, ma no! Vado fino in fondo alla lettura, vado fino in fondo al tentativo di ascoltare e conoscere. Avverto le tante distorsioni mentali a cui sono ricorso per evitare la prova di andare fino in fondo. Mi sono aggrappato a una fede che non è germogliata dall’andare fino in fondo, ma dall’accontentarmi delle mie opinioni a metà strada. Ma una strada dove ci si ferma a metà è una strada?
Andare fino in fondo alla conoscenza e trovarsi con nulla in mano è la dimensione dell’esperienza umana in cui l’uomo assapora il divino dentro di sé. S’accorge che, a mani vuote, l’uomo può generare la fede. Questa, la fede, è la mia fede, è un atto della mia libera volontà; ma non delle mie opinioni, ma mia dalle mie mani vuote. Quel fondo è ancora mio, è l’intimior di cui ha testimoniato Agostino. La fede non può che essere generazione personale. Non è deduzione, né calcolo; è sorpresa di Dio in se stessi. E’ figliolanza divina.
Sperimentato questo, ecco ancora l’andare fino in fondo. Ecco ancora lo “a mani vuote”, dove la fede personale, a mani vuote di personalismi, matura in fede comunitaria. In perdono. Il perdono è lo “a mani vuote” dell’amore.
Nella fede comunitaria ogni fratello e ogni sorella è, l’un l’altro, un nuovo andare fino in fondo e, a mani vuote, perdonando ed essendo perdonato, è il Regno di Dio. Eppure siamo ancora qui, a mani vuote. A mani vuote finché anche il fratello peccatore più lontano giunto al fondo del suo peccare, a mani vuote, si apra al soffio dello Spirito. p. Luciano
P.S. al link sottostante ho trovato la poesia meneghina a San Biagio
I milanes hin andà a spass Al Covid han tirà i sass!
L’è mei peró fidas nó el virus l’è in gir ancamó.
Duman l’è la Candelora ma dal virus sem minga fora.
E dopu ariva San Bias che cura la gula e il nas.
Disemegh a lù un’urasiun ch’el guarisa da sta maledisiun!
Milanes brava gent Gh’è ammó de stàa atent!
Madunina tuta d’ora e splendenta insema san Bias
cascia via sta pestilenza
e num cun tanta reverenza turnerem a ves gent cuntenta.