Milano, 26 ottobre 2021
Con un po’ di tremore, come ogniqualvolta ci si deve sottoporre a un intervento anestetico o chirurgico, ma con vera convinzione, e anche con profonda riconoscenza, il 21 ottobre ho ricevuto la terza dose di Pfizer.
Lo scrivo agli amici che come me hanno aderito volentieri alla campagna vaccinale, come pure agli amici che hanno scelto la via del tampone. Fra questi ultimi, tanti amici a cui devo affetto e stima.
La vera amicizia chiede di fermarsi davanti alle scelte di coscienza degli amici. Così anch’io mi fermo, e piuttosto intendo raccontare agli amici, in primis a quelli che hanno fatto scelte differenti dalla mia, l’iter della mia scelta.
Nel febbraio 2020 il corona virus penetrò nella Casa madre della mia congregazione, Parma, dove erano accolti una sessantina di confratelli non più autosufficienti o rientrati temporaneamente dalle missioni per una qualche cura terapeutica e quindi far ritorno in missione. Il virus, entrato in sordina, in un mese portò 18 confratelli prima in cura intensiva, quindi alla morte. Con la grande casa madre dei Missionari Saveriani tutta in quarantena, mancando il personale sanitario dall’esterno, alcuni confratelli in piena salute si offrirono a prendersi cura dei confratelli malati. Quando padre Gerardo, uno di questi confratelli in piena salute, già missionario in Africa, scoprì sul suo corpo gli stessi sintomi dei confratelli malati che stava curando, ha telefonato l’Ad-Dio ad un amico; quindi la terapia intensiva e la partenza silenziosa da questa terra. Condividendo, pur a distanza di anni, la stessa data di compleanno, quando ci incontravamo ci piaceva scherzare sul “buon augurio” del nostro comune giorno di nascita.
Nei primi mesi della pandemia, quando non c’era ancora una sufficiente conoscenza del comportamento del virus e quindi nemmeno il provvedimento del controllo green pass, infermieri, medici, famigliari, confratelli furono improvvisamente privati della loro vita. Sento verso di loro il dovere di valorizzare e onorare il sacrificio che la sorte ha loro assegnato, coltivando in me e nella società l’anima relazionale della vita.
Sono prete e il mio corpo è stato unto con l’olio e il balsamo. Mi è spontaneo riconoscerlo come un’offerta, un altare. Per me le tre dosi di vaccino che mi premuniscono dal diffondere il virus alle persone che incontro sono come la tovaglia pulita stesa sull’altare per celebrare l’eucaristia. Ciò non toglie che ad ogni vaccinazione un certo tremore per l’incognito sia immancabile. Credo che ogni donna, quando s’accorge che il suo grembo è diventato altare della vita, provi lo stesso tremito in grado molto intenso.
Il ricordo che a me rimane più incisivo da questi ormai due anni covid sono gli incontri in confessionale. Ogni settimana dedico 10 ore a questo servizio. Quando tutto fila liscio, al confessionale vengono anche gli habitué dicendo che sono venuti perché abituati a confessarsi ogni una o due settimane. Nel periodo covid le abitudini non tengono e al confessionale approdano piuttosto fratelli e sorelle con il dramma dell’imprevisto che ha sovvertito le loro abitudini e infranto i loro sogni. I giovani sono i più numerosi. Sono certo che tutti partano dal confessionale con un conforto silenzioso nell’anima e nel corpo. Lo lasciano trapelare dagli occhi. A me sacerdote, la commozione. E anche l’inchino alla dignità delle cose, che la vita elergisce quando si pone la mano all’aratro e non ci si volta indietro.
Vaccini! Tamponi! Una tovaglia pulita per l’altare della comunione eucaristica!
L’altare: il corpo. “Questo è il mio corpo dato…”.
p. Luciano
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