Celebrazione eucaristica di domenica 26 settembre: ebbi l’impressione di non riuscire a dire la profondità del Vangelo, interruppi l’omelia e la lasciai monca, incompleta.
Il Vangelo di quella domenica secondo il rito romano (Marco 9, 30-37), narrava di Gesù che, avendo chiara la previsione della sua morte ormai vicina, si recò un’ultima volta in Galilea, la terra dei suoi affetti, dove era cresciuto e aveva lavorato. Riporto il testo del Vangelo: <… Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva i suoi discepoli e diceva loro: “Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”. Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni. Giunsero a Cafarnao. E quando furono in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”. Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande>.
Il giorno precedente quella domenica avevo telefonato a una persona a me cara che sapevo sofferente per una grave malattia. Chiesi di poterle fare visita. “Grazie, ma le chiedo di non venire, perché in questo momento non mi sento di parlare con le persone”. Quella risposta mi ammutolì. Ammutolì anche la riflessione dell’omelia che avevo preparato e rimase incompleta.
Le precauzioni covid hanno ridotto di molto gli incontri con le persone, anche al confessionale. In cambio le poche persone che accedono confidano al sacerdote non solo i loro peccati, ma colgono l’occasione per parlare dei loro disagi. Disagi reali che tuttavia sono ancora dicibili con parole, casomai intercalate da attimi di silenzio. Ma prima o poi nella vita giungono momenti che chiedono di essere vissuti in solitudine, a tu per tu con se stesso e il proprio destino. Anche l’amico, anche il discepolo non può profanare quell’ “a solo”.
Attraversando la sua terra, ormai nell’imminenza della morte, Gesù si sentiva solo, mentre gli apostoli rumoreggiavano vivacemente su chi di loro fosse il più grande. Davanti alla morte la solitudine del maestro che constata di non essere riuscito a trasmettere ai discepoli l’insegnamento più fondamentale del suo cuore! Così è di tanti genitori! Il Vangelo di Giovanni, narrando quest’ultima visita di Gesù alla sua terra, afferma: “Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui” (Gv 7,5).
Giungono momenti nella vita in cui non c’è più niente da dire. Anzi, ogni parola osata confonde e ogni ragionamento devìa. L’unico atto di libertà e di compostezza: abbracciare il proprio destino e lasciarsi sussurrare ciò che tiene in segreto. In quel segreto un qualcosa di se stesso che l’uomo ancora non conosce e non può conoscere nelle situazioni che noi diciamo normali. Ognuno ha nel suo intimo qualcosa di eterno, di unico, di divino, non dicibile con i suoni del tempo, di non misurabile con i parametri generici. Qualcosa che nel linguaggio fenomenico rimane sempre monco, incompleto.
Nell'”a solo” del proprio destino abbracciato, la palpitante compagnia con tutti i destini di tutte le creature. Un coro immenso di “a solo”, come un cielo stellato.
p. Luciano
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