Il cammino nel dialogo religioso, credo in modo particolare in quello tra via buddhista e via cristiana, è scosceso, anzi minato. E’ la mina dell’io delle religioni che, pur tenuto ben celato sotto il velo di tante moine di rispetto, quando è pestato scoppia e fa saltare tutto. Sì, le religioni hanno il loro io.
Tralasciando, per la sua superficialità evidente, il dialogo inter-religioso moda carnevale, ossia quello cucendo brandelli colorati presi qua e là dalle tradizioni religiose, campane o gong, stuoie o panche, calici o ciotole, il dialogo inter-religioso autentico conosce due tappe: una turbolenta e una contemplativa. Turbolento è il primo stadio, ma questa turbolenza comprova che il dialogo è intrapreso seriamente da parte di chi ha della religione una esperienza personale autentica. Ossia, sa che espone al dialogo con l’altra parte qualcosa che riconosce come la propria vitalità interiore, maturata lungo il susseguirsi di stagioni, ricercando, meditando, lottando. Se la persona che si offre alla sfida del dialogo ha a fondamento questa seria identità interiore, è ovvio che nel confronto dialogico avverta timore e pudore.
Timore e pudore! Tuttavia il bisogno di dialogare si fa irresistibile. Sì, perché la persona seriamente religiosa sperimenta che la sua religione e tutte le religioni messe assieme non esauriscono l’abisso che è l’uomo. Le religioni sono nate dall’esperienza umana che rimane inesauribile e questa, l’esperienza umana, è in continuo mutamento nel tempo che scorre. Scatta, nella persona umana, il conflitto con il proprio cuore, perché questo, il proprio cuore, si affeziona alle convinzioni intime che ha acquisito e si erge alla loro protezione e difesa, come una madre verso la figlia sposata che ha problemi con il proprio sposo. Ma l’uomo non è solo cuore; è, nel profondo, spirito. Lo spirito è libero anche dall’affetto del cuore. L’ambito dello spirito è la coscienza. “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” (Mc 2,27).
Il salmista pregò così: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite, ma la tua legge non ha confini” (salmo 119, 96). Il dialogo religioso e inter-religioso, ossia delle esperienze più profonde dell’essere umano, scaturisce dalla nausea suscitata dal concetto di perfezione. Ad ogni perfezionamento raggiunto rimane sempre uno spazio vuoto insaziabile. L’uomo può agitarsi ad occultare quel vuoto con frasche; potrebbe anche paventare minacce se qualcuno togliesse le frasche. Così il dialogo inter-religioso, di fatto, si svela essere la continuazione del dialogo di ciascuno con il proprio abisso, interiore ed esteriore. Si svela essere la continuazione del conflitto con la propria allettante superficialità.
La turbolenta esperienza del dialogo inter-relioso ci riconduce all’attualità di ciò che siamo. Nagai Takashi chiama questa attualità nyokodō, ossia l’aula come me stesso. Usando parole del lessico biblico: ci riporta alla generazione divina che è in atto in noi: “… perché un germe divino rimane in lui” (1 Gv 3,9). Citare la Bibbia nel dialogo inter-religioso a sostegno della propria parte, ridurrebbe la Bibbia a Scrittura di parte. Il valore di una Scrittura o Tradizione è testimoniato più genuinamente da chi si trova su altre strade. Questi, ascoltando la Bibbia, ne coglie la verità senza dover aggiungere: “è vero perché così dice la Bibbia”. Nyokodō – il luogo come me stesso.
Il dialogo inter-religioso che non denatura in camuffata apologia, è anche il sentiero lungo il quale si può riconoscere il tesoro più prezioso che la propria tradizione religiosa custodisce. A rivelarlo sono infatti gli altri con cui si è in dialogo. L’altro, non condizionato dall’appartenenza, è più libero e fine nel distinguere ciò che è genuino e ciò che non lo è. Nella religione cristiana, e credo in tutte le religioni, si afferma che solo chi ha occhi per vedere vede. A Pilato Gesù disse: “chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Essere dalla verità non è l’appartenenza religiosa, ma la soglia per un cammino religioso che è il sabato per l’uomo: ossia che non si riduce ad appartenenza, ma è cammino reale. Nyokodō – il luogo come me stesso.
Così l’uomo si ritrova sempre a tu per tu con il vuoto. Non raggiunge mai un livello tale di comprensione a cui affidarsi e stare in pace. Quel vuoto è divino. E’ il terreno da cui germoglia l’arte.
Ritorno alla mia confessione cristiana. Io, cristiano, credo nello Spirito Santo! Lo Spirito Santo è il vuoto di Dio: non è né il divino generatore, né il divino generato. Il concetto di persona non riesce a rinchiudere e contenere il divino generatore e il divino generato, non ostante la cultura occidentale voglia rinchiudere ogni elemento reale o nell’idea platonica in cielo, o nella sostanza delle cose sulla terra. Lo Spirito Santo è vuoto, è il vuoto divino. E’ il respiro! Quale tribolazione quando i polmoni sono riempiti e non hanno più vuoto!
La prima tappa del cammino religioso e inter-religioso è l’inquietudine per la perdita delle sicurezze. La seconda tappa è la libertà dello spirito, è l’arte, è la lode, è la pazzia dell’amore.
Vorrei amare l’Eucaristia come Simon Weil. Lei, non battezzata, l’ha esistenzialmente desiderata e attesa. Io, invece, dico messa perché sono prete.
p. Luciano
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