di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 2 febbraio 2009
Negli ambienti della sinistra internazionale era di casa, così che quando Trockij giunse in incognito a Parigi nel 1933 lo fece ospitare per qualche giorno in un appartamento dei suoi. Naturalmente parlarono di politica e «la discussione divenne presto disputa; dalla stanza vicina si sentiva parlare con tono concitato». La sua biografa continua dicendo che «doveva essere la voce di lui, perché Simone parlava sempre con calma e non si scaldava mai nel discutere». Poi riporta lo stupore della moglie di Trockij: «Una ragazza che tiene testa a Trockij!». Lei in realtà non era più una ragazza: aveva 24 anni, una laurea in filosofia alla Normale conseguita brillantemente due anni prima, insegnava nei licei, era molto impegnata a livello politico-sindacale, già schedata dalla polizia, e pubblicava per giornali tipo La Révolution prolétarienne. Qualche mese prima, durante un congresso a Reims, se l’era vista brutta con gli staliniani, saliti sul palco da cui parlava per malmenarla, «ma i suoi compagni le fecero cerchio intorno e la protessero». Il motivo? Aver criticato la politica troppo accomodante dell’Urss verso Hitler da poco salito al potere. Aveva sempre in tasca L’Humanité, il quotidiano dei comunisti francesi, ma ciò non le impediva di pensare con la sua testa. E fu proprio questa libertà, unita a un’intelligenza superiore (Simone de Beauvoir ne ricorda “la grande reputazione di intelligenza” tra gli studenti della Sorbona), ad aver fatto di lei uno dei più importanti pensatori del Novecento.Nata a Parigi da genitori ebrei il 3 febbraio 1909, morta a 34 anni nell’esilio inglese con l’anima consumata dalle tragedie della storia, da giovane fu esplicitamente antireligiosa al punto da rompere l’amicizia con una compagna divenuta cattolica. Lavorando giunse a identificarsi a tal punto con la condizione della povera gente che “il giorno in cui riscuoteva lo stipendio, la porta della giovane professoressa di filosofia era assediata”, finché nel 1934 decise di andare a lavorare in fabbrica facendosi assumere alla Renault, dove però riuscì a resistere solo un anno. Durante la guerra civile di Spagna partì volontaria per la repubblica, ma si ustionò un piede mettendolo nell’olio bollente di un’enorme padella e dovette rientrare in Francia. Fu la sua fortuna, perché la sua compagnia venne sterminata da lì a poco.
Nel frattempo il suo cammino spirituale si era fatto sempre più intenso fino a una vera e propria esperienza mistica nel 1938, descritta con una frase diventata celebre: «Cristo è disceso e mi ha presa», e commentata così: “Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto questa possibilità di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio. Avevo vagamente inteso parlare di simili cose, ma non vi avevo mai creduto. Nei Fioretti, le storie di apparizione mi ripugnavano più di ogni altra cosa, come i miracoli nel Vangelo. D’altronde, né i sensi né l’immaginazione hanno avuto la minima parte in questa improvvisa conquista del Cristo: ho soltanto sentito, attraverso la sofferenza, la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un viso amato».
Si trattò di una conversione del tutto particolare, perché, a differenza degli altri convertiti, scelse di non chiedere il battesimo e di non entrare nella Chiesa: «La mia vocazione è di essere cristiana fuori della Chiesa». Perché? Perché «la Chiesa non è cattolica di fatto, come lo è di nome». Cattolico, com’è noto, significa universale, ed è proprio questo che per lei mancava alla Chiesa cattolica romana, l’essere pienamente universale, in grado di abbracciare gli esseri umani di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ciò che lei non poteva accettare era la condizione articolare, talora persino settaria, che ai suoi occhi l’essere cattolici romani comportava. Rifiutava la traduzione della fede personale in un corpo sociale organizzato che per lei andava inevitabilmente a scapito dell’universalità.
Un’eretica? Già prima di litigare con Trockij aveva scritto che le sue idee erano “eretiche rispetto a tutte le ortodossie”, ma sentiva che la sua missione consisteva nella testimonianza di un amore universale quale condizione indispensabile per avere a che fare davvero con Dio.
In lei ciò si traduce in un modo nuovo e insieme antichissimo di pensare la salvezza, legata non più a un particolare evento storico ma all’estensione dell’intera creazione, divenendo così disponibile per ogni essere umano che abbia vissuto secondo giustizia, a prescindere da dogmi e rituali di sorta.
Se la salvezza non fosse presente sulla terra sin dall’origine, «non si potrebbe perdonare a Dio la sventura di tanti innocenti». Ne viene che il contenuto del cristianesimo (che è il Cristo, in quanto unità di Dio e uomo) esisteva ben prima del Gesù storico. Da qui le sue celebri parole: «Ogniqualvolta un uomo ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Krshna, Buddha, il Tao, ecc., il figlio di Dio ha risposto inviandogli lo Spirito Santo. E lo Spirito ha agito sulla sua anima, non inducendolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli luce – e nel migliore di casi la pienezza della luce – all’interno di tale tradizione».
Tale universalità della salvezza riguarda non solo i fedeli delle altre religioni, ma anche gli atei e gli agnostici, nella misura in cui sono abitati dall’amore per il bene, la giustizia, la verità. Simone Weil fonda teologicamente questa visione con un’idea ancora tutta da esplorare per la teologia: «Dio è insieme personale e impersonale». Ciò significa che il rifiuto di Dio in quanto persona non comporta di per sé l’esclusione dal divino. Vi è infatti anche un aspetto impersonale del divino (che si manifesta nella solidarietà con gli altri uomini, nell’amore per il creato e per la bellezza, nella tensione etica verso la verità e la giustizia) e quando un essere umano aderisce con tutto se stesso, incondizionatamente, a una di queste forme di amore assoluto, entra nel divino, che lo sappia o no, che lo voglia o no. Ciò che è decisivo è il sentirsi obbligati da qualcosa di incondizionato, che fa uscire da se stessi e che lega a una dimensione superiore: «Quelli che posseggono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo, compresa la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in apparenza atei». Per Simone Weil credere in Dio, ben prima di ritenere vere determinate dottrine, significava esprimere un retto pensiero sul mondo (la verità) e una retta azione in esso (la giustizia). Il principale banco di prova è dato dall’atteggiamento verso gli altri esseri umani, dall’avvertire un obbligo verso i nostri simili: chi avverte quest’obbligo verso gli altri dentro di sé, è chiamato in quel momento all’eternità.
Ha scritto nel suo ultimo testo: «Credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucaristia, negli insegnamenti del Vangelo». E insieme però: «Non riconosco alla Chiesa nessun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero». In questo nodo, dato da una fortissimo amore per Dio e per Cristo unita al rifiuto del potere intellettuale della gerarchia ecclesiastica, si gioca la partita della fede dei nostri giorni. Sono molti oggi i credenti che non riconoscono più alla Chiesa un potere sulla loro intelligenza. La seguono quando si tratta di testimoniare la carità e di celebrare la liturgia, ma non sono disposti a cederle l’ultima parola nell’ambito del pensiero. La fede per loro non è più basata sul principio di autorità ma sul principio di verità. E per consegnarsi alla verità vogliono pensare con la loro testa, senza timore di nessun Trockij ecclesiastico. Simone Weil sentiva che «nel corso di tutta la storia conosciuta mai vi fu un’epoca come l’attuale in cui le anime fossero in tale pericolo». E sentiva al contempo che, essendo l’intelligenza bisognosa per definizione di “una libertà totale”, si deve registrare «fin quasi dalle origini un malessere dell’individuo nel cristianesimo, in particolare un malessere dell’intelligenza». La riconciliazione tra intelligenza e cristianesimo è una delle condizioni essenziali per salvare le anime occidentali dal nulla che le sta consumando.
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