Da LA STAMPA del 19 giugno 2009
Il pescatore che salva i clandestini
FRANCESCO GRIGNETTI
Il comandante del peschereccio Twenty Two premiato dall’Alto commissario Onu per i rifugiati: «Tutta la notte in mare rischiando la vita. Onde forza 7. E’ stato un incubo».
Era una notte buia e tempestosa. Ventotto novembre scorso, Lampedusa. Il peschereccio Twenty Twoera appena entrato in porto. «Ci eravamo riparati perché il mare si era fatto davvero grosso», racconta il comandante Salvatore Cancemi. Arrivò trafelato il responsabile della Capitaneria di Porto. «C’è da salvare della gente in mare – mi dice -, voi ve la sentite? Certo. Chiamo in coperta l’equipaggio. Ci guardiamo in faccia. Siamo tutti d’accordo. E si esce. Noi pescatori eravamo in undici, quattro quelli della Capitaneria. Ma il mare era cattivo. Uh, se era cattivo ».
Comincia così un’operazione di salvataggio che nessuno ha mai raccontato.Gli unici che finora ne sapevano qualcosa erano i funzionari dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che l’hanno sentita raccontare dalla voce dei sopravvissuti. E oggi, nell’ambito della Giornata mondiale del rifugiato, consegneranno a Cancemi il premio «Per mare. Al coraggio di chi salva vite umane».
Il Twenty Two quella notte ha salvato trecento immigrati clandestini in balia delle onde. Un recupero fortunoso e quasi incredibile. «Il mare era forza 6 o 7. Vento fortissimo di grecale. Onde anomale. Ed era buio. Siamo usciti dal porto in due pescherecci, ma uno s’è trovato subito in difficoltà ed è rientrato. Noi, no».
Scena da rivivere attraverso il racconto del comandante. I quattro marinai della Capitaneria di porto, onde così non le avevano mai affrontate. Uno vomita di qui, un altro di là. I pescatori sono più abituati, ma spaventati. «Dovevamo fare quindici miglia verso Sud-Ovest, costretti a procedere con il motore al limite e le onde ci prendevano sul fianco. Ad ogni colpo di mare, il peschereccio sbandava. Beh, la situazione era davvero molto pericolosa. Ma sentivo che non potevamo fare diversamente. C’era quella gente che stava per andare a fondo».
Quattro ore di navigazione per arrivare al punto dell’ultimo allarme. Il calvario della Twenty Two e dei naufraghi, però, è solo agli inizi. Non trovano nessuno. «Cominciamo a girare in tondo». Nel buio si sente solo il muggire del mare in tempesta. Finché un grido squarcia la notte: «Stanno là». Li vedono. «Erano trecento anime su una carretta. Urlavano. Piangevano. Ti tendevano le mani. Ma io non sapevo come portarli a bordo. Di avvicinarci, neanche a parlare». Il peschereccio gira attorno ai naufraghi a lungo. «Gli urlavo che dovevano avvicinarsi loro. Ma gli scafisti a quel punto facevano finta di essere normali clandestini. Dopo ci hanno raccontato che quelli li minacciavano: “Ti ammazzo se fai capire che sono scafista”. Insomma, la barchetta non la governava più nessuno».
Altre ore andando alla deriva, gli italiani e gli africani. Con il pericolo che cresceva sempre più. «Ci siamo avvicinati a Lampedusa. Erano passate quattro o cinque ore. A mezzo miglio dall’isola, ho capito che dovevo avvicinarmi io e fargli da scudo al mare. Quando il fondo è arrivato a sette-otto metri, ho gettato l’ancora. E Dio ci ha voluti aiutare. L’ancora ha preso subito. Era pericoloso, ma ci abbiamo provato. Ogni volta che la barca si avvicinava, ne prendevamo trenta o quaranta. I miei si sono dannati. Quelli della Capitaneria sono diventati come leoni. Li afferravamo e li portavamo dentro. Alla fine erano in trecento. Sono andato nella mia cabina e ho cominciato a piangere. Dovevo sfogare la tensione».
All’alba, il Twenty Two ha capito di essersi piazzato sotto lo scoglio di Capo Ponente. Tante le rocce affioranti. «Ci siamo allontanati e finalmente siamo rientrati in porto. Sa una cosa? C’era tutta l’isola sul molo ad aspettarci. Ci hanno fatto l’applauso per dieci minuti. M’è tornato da piangere».
Nessun tag per questo post.