lettera
Vangelo e Zen
Vangelo secondo Luca 2, 21-40
Del Vangelo di domenica 30 gennaio mi è rimasta impressa questa frase: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la salvezza” (29-30). A proferire queste parole fu Simeone, un uomo anziano presente nel tempio di Gerusalemme quando Maria e Giuseppe portarono il bambino Gesù per la benedizione rituale dei neonati. Alla vista del bambino, Simeone e l’ottantaquattrenne Anna elevarono l’inno del ringraziamento. Mi ha colpito la serenità di questi due anziani che attendevano la morte ringraziando con parole madide di pace. Mi ha colpito, perché per ciascuno di noi, in particolare per chi è avanti nel cammino della vita, ogni giorno è un passo verso la morte. Mi colpisce soprattutto in questa epoca in cui straripa il modo di vivere come se la vita con tutte le esperienze che contiene non avesse l’intima natura della sua conclusione. Qualora l’inesorabile destino della fine si preannuncia, lo si attacca violentemente, nell’illusione di cacciarlo indietro. Con il passare delle stagioni le mele maturano e si fanno sempre più dolci, invece noi uomini ci facciamo acerbi e violenti. Come mai?
Quando ero in Giappone leggevo il quotidiano Asahi Shinbun, ed ora ne visito il sito quasi quotidianamente. Alcune settimane fa vi dominava una notizia: La squadra nazionale (giapponese) di calcio ha conquistato la Coppa dell’Asia, la Champions League asiatica. Allenatore l’italiano Alberto Zaccheroni: quindi foto di tifosi che sollevano in alto il non così magro eroe gridando: Nihon Banzai (Evviva il Giappone)! Itaria Banzai (Evviva l’Italia)! Vi stava scritto che, durante la partita decisiva giocatasi in Australia, quasi il 50% dei giapponesi era incollato alla televisione. Ai miei tempi, oltre 30 anni fa’, questo gioco era sconosciuto. Anche ciò a riprova che le cose cominciano e finiscono.
Ho letto sul Corriere della Sera un’intervista fatta a Zaccheroni dopo la vittoria asiatica. Il giornalista gli chiese: “Che cosa trovi di valido nei calciatori giapponesi?”. La risposta fu pressapoco così (cito a memoria con mie parole): “Ritornati negli spogliatoi dopo la partita, piegano la maglietta e i calzoncini usati, li ripongono nel sacchetto e se li portano a casa per lavarli”. Commentando il gesto di riporre le cose con rispetto dopo l’uso, senza lasciarsi travolgere dall’entusiasmo per la vittoria o dallo sgomento per la sconfitta, Zaccheroni aggiunse: “Ragazzi con questo atteggiamento un giorno supereranno anche gli assi del calcio italiano, perché chi sa finire bene, sa riprendere bene. Chi invece non sa mettere a posto dopo l’uso, non va più avanti di lì”. Sì, ci è facile immaginare il comportamento de nostri calciatori a partita finita! Fanno come sovente noi tutti facciamo. Desio, da dove scrivo questa lettera, è al cuore della Brianza, ritenuta uno dei lembi d’Italia più progrediti. Eppure stringe il cuore al vedere la stazione ferroviaria, ogni giorno frequentata da alcune migliaia di pendolari, sempre ricoperta di lattine, bicchieri di plastica e di tante altre cose gettate, benché nei pressi stia il cassonetto. Devo pure aggiungere che spesso questo sta lì straripante per giorni e giorni. Abbiamo tutti visto le montagne di sacchetti di Napoli e non potevamo non chiederci: Ma com’è possibile continuare a gettare il proprio sacchetto su quella montagna! In Giappone la cultura del non gettare è curata già nella scuola. Non esistono bidelli incaricati di raccogliere ciò che l’allievo butta e la cura della scuola è di tutta la comunità educativa: il preside, gli insegnanti e gli studenti assieme dispongono le aule al mattino e le ripongono in ordine, prima di ritornare a casa. Nel novembre scorso ho passato una giornata intera pellegrinando nei cinque quartieri di Tokyo dove furono martirizzati i cristiani nell’era Edo. Ho contato i mozziconi di sigaretta incontrati: furono 5.
Un giorno chiesi all’abate Watanabe Kōhō, da quale aspetto comincerebbe a insegnare lo Zen agli italiani. Mi rispose: “Dopo che hai usata la sedia, rimettila a posto”. La cultura del non lasciar strascico è parte dell’anima dello Zen, che appunto insegna a vivere appieno l’attimo senza attaccarvisi. Chi sa concludere i momenti della vita, uno a uno, sa accogliere i momenti della vita, uno a uno. E alla fine può coronare la sua vita con l’ultimo atto: accogliere la morte conservando dignità e pace. “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace… “.
Alle motivazioni spirituali sopra accennate, ce n’è una anche psicofisica, che ulteriormente ci raccomanda di mettere a posto la sedia dopo averla usata. E’ questa: Se viviamo senza strascicarci dietro le cose, la vita è più leggera e le energie sono tutte lì a disposizione, altrimenti sarebbero risucchiate via dai risentimenti per le cose accadute che non vogliamo chiudere. Sapendo cominciare e sapendo chiudere le cose una a una, la vita è più leggera, è alla San Francesco.
Dopo tanta lode, doverosa, verso la cultura giapponese, aggiungo anche un aspetto mancante, in cui probabilmente la cultura italiana – che è comunque sempre la mia amatissima cultura – è più vera. In genere il giapponese, dopo aver messo a posto le cose usate e dopo aver riposto i sentimenti che ha tirato fuori per l’occasione, chiude il suo rapporto con l’avvenimento in questione. Un inchino, e tutto finisce. Spesso si vorrebbe che il coinvolgimento in un avvenimento continuasse anche ad avvenimento concluso. Invece, per il giapponese, l’attimo è passato! Ciò è il tormento di noi missionari, finché non si arriva a condividere in radice quel loro comportarsi così. Sì, il missionario ci resta male, perché alla festa di Natale o ad altre iniziative che lui organizza partecipano molti suoi nuovi amici e già si gusta di averne tanti alla messa della seguente domenica. Invece, i tanti suoi nuovi amici hanno già messo la sedia a posto.
“Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la salvezza”. Abbiamo ereditato l’anima italiana che ci fa sempre vedere delle connessioni delle nostre cose con la responsabilità degli altri. Siamo talmente maestri nell’investigare le cause che sono fuori di noi, al punto da poterlo insegnare anche ai giapponesi. Zaccheroni alla domanda del giornalista: “Allora tu allenatore italiano che cosa insegni ai calciatori giapponesi?” (sempre citazione con mie parole), rispose “Insegno a buttarsi, perché loro rimangono troppo negli schemi”. Risposta giusta, ma i cronisti italiani chiamano ciò: Cattiveria! Ci deve essere un buttarsi che invece rimane bello! Senza né barare, né ferire.
Un fiore fiorisce al massimo della sua bellezza, senza usare cattiveria. Come Simeone, come Anna, viviamo la vita col massimo sforzo, senza lasciare strascico. Così quel giorno sarà beato. “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace… ” .
P.Luciano
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