lettera
Vangelo e Zen
«E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Pensavo a me stesso mentre offrivo le mie considerazioni alla piccola assemblea riunitasi per la messa di questa infuocata domenica di ferragosto (21 agosto). C’è un passaggio in questo breve Vangelo in cui la mia coscienza inciampa e si sente messa in questione. Il passaggio dice: “ Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli… tutto quanto aveva per vivere”. Inciampo in questo versetto, perché quando mi imbatto in un povero che chiede l’elemosina e che appare veramente bisognoso del mio aiuto, verifico anzitutto quanto mi rimane in tasca qualora dia la mia moneta. Mi trovo a disagio se in tasca ho solo una moneta di un euro che non posso dividere in due; mi trovo invece a mio agio se ho due monete di cinquanta centesimi, così posso darne una e l’altra tenermela. Non si sa mai! Ossia, prima di fare l’elemosina, anche mentalmente trasformo la moneta che do in un superfluo. “ Poiché tutti hanno dato del loro superfluo”.
Alcuni giorni fa ho visto un uomo, forse trentenne, seduto davanti al mini super mercato dove di solito vado a comperare il pane e il companatico dei miei pranzi a Milano. Stava leggendo un libro e sulla palma della mano sinistra teneva il bicchiere di plastica nell’attesa che qualcuno vi mettesse una moneta. Quel giorno avevo deciso di pranzare con lo yogurt e una baguette. Comprai una confezione di yogurt da due vaschette, così da darne una al giovane questuante. Questi reclinò dicendomi: Ho già avuto il cibo dal super mercato, ma devo finire di pagare. Mi puoi dare una moneta? La risposta mi disturbò, perché non coincideva con il mio programma e risposi che non avevo alcuna moneta, mentre tenevo il resto in tasca. Praticamente, comprandomi lo yogurt, avevo già destinato una delle due vaschette ad essere superflua e quindi da dare al poverello. Ma non andò così e io non fui capace di dare i due centesimi, senza tenermene uno.
Fatterelli! Però dicono l’impostazione della vita. Sì, noi impostiamo la vita in modo tale che produca il superfluo. Così isoliamo in questo ambito la funzione del donare agli altri. Il superfluo è l’ambito dei nostri mi piace – non mi piace, dei nostri capricci portati avanti impunemente. Si tratta, infatti, del superfluo! Mi chiedo se avrei potuto gustare, come di fatto ho gustato, il pesce che una coppia di amici in questi giorni mi ha offerto invitandomi a casa loro, qualora quel pesce mi avesse dato del suo superfluo. Di quel pesce, per se stesso, non era rimasto niente.
Da questo santo Vangelo, che meriterebbe ben più profonde considerazioni e valutazioni, imparo che quando mi trovo davanti a un povero che chiede l’elemosina non devo mercanteggiare. Semplicemente mi devo dire: Puoi? Se posso, offro senza calcoli. Se non posso, faccio un inchino e dico: Non posso! Anche in questo caso senza rammarico. Appunto, perché non posso. Appunto, perché non detengo un ambito dove ristagnare tra il si e il no a mio capriccio, chiamato: il superfluo. Il tenere il superfluo è la radice delle sperequazioni che produce i poveri. L’elemosina data dal superfluo è uno stecchino d’incenso bruciato all’iniquità. Prima di morire Gesù disse: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo dato per voi”. I primi cristiani, per eludere la persecuzione, si comunicavano l’un l’altro la fede con il segno del pesce.
La carne bianca di quell’orata offertami dalla coppia di amici era veramente buona, e nutriente.
p. Luciano
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