«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo». Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai». Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano; e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra». Gesù gli rispose: «È stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo». Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato.»
* Il tentatore cita la bibbia
«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto, dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo». La Quaresima evoca nella nostra vita i quaranta giorni di Gesù nel deserto. Lo Spirito di Dio, lo Spirito che unisce, ha condotto Gesù nel deserto affinché fosse tentato dal diavolo, lo spirito che confonde e disunisce. Lo Spirito e il diavolo! Forze opposte! Eppure nel Vangelo sembrano agire obbedendo a una sola legge. In nessun altro brano della Scrittura come qui appare così evidente che la parte del diavolo si colloca dentro la grande opera dello Spirito. Gesù, «pieno di Spirito Santo», fu condotto dallo Spirito nel deserto; e il diavolo era là ad attendere, per fare la sua parte.
Molte persone religiose si ritengono esenti dalle tentazioni; o così ambiscono. Presumono un cammino protetto e garantito che non conosca il deserto, perché nel deserto l’uomo è in balia delle forze violente che lo assalgono, per di più senza alcun riparo. Così non pochi intendono l’invocazione: «Non indurci in tentazione». Eppure fu lo Spirito Santo a condurre Gesù nel deserto per essere tentato. Lo Spirito Santo lo condusse” proprio perché Gesù era «pieno di Spirito Santo». Quindi il deserto è ambiente dove l’opera dello Spirito si manifesta in modo speciale. Il deserto infatti è il regno del vento, dello Spirito.
Gesù fu condotto nel deserto; e il deserto era vero deserto, il tentatore vero tentatore, la tentazione vera tentazione. Nessuna simulazione per darci l’esempio; come se Gesù fingesse per noi! Gesù sperimentò davvero il crogiolo del dubbio, del buio, dell’inclinazione alla resa. «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane… Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordine per te perché essi ti custodiscano”». Il diavolo è estremamente religioso nel suo linguaggio di tentatore: si rivolge alla natura , divina di Gesù, premendo perché si manifesti. Per il suo intento cita la Bibbia. La tentazione trova molta efficacia se si cela sotto le parvenze della religione. Allora gli stessi messaggi religiosi diventano lo strumento efficace per sedurre l’uomo, confonderlo e disunirlo nella sua interiorità. Questo avviene ogni volta che i testi sacri, le tradizioni, i riti e i maestri presumono di sostituirsi alla libera ricerca del cuore e quando i dogmi diventano insegnamenti astratti e avulsi: allora il diavolo ha vinto. Allora si attua la disgregazione tra il cuore e la fede. Allora l’uomo vive nella schizofrenia tra vita e religione, contento di trarre profitti pagani dall’ambiguità di sembrare senza essere.
«È stato detto: “Non tenterai il Signore Dio tuo”». Gesù ribatte al tentatore che cita la Bibbia, citando a sua volta la Bibbia. La Bibbia è come il koan dello Zen: può essere compresa in un modo e nel suo opposto; può impunemente essere usata da Gesù come dal diavolo. Tutto dipende dalla disposizione di chi la cita. «Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso» (Mt 6,22-23). Mai si finisce di ricordare quanto sia prezioso il vangelo che viene prima del Vangelo: ossia la retta comprensione che ci dispone ad ascoltare il Vangelo. Il vangelo prima del Vangelo è quello che Giovanni per anni e anni ha ascoltato nel silenzio del deserto; che poi ha predicato alle folle, nel quale ha battezzato e per cui ha dato la vita. Infatti la storia di Giovanni si colloca prima che Gesù inizi l’annuncio del Vangelo. Anche le tentazioni di Gesù nel deserto sono parte del vangelo prima del Vangelo: infatti precedono il suo cominciare a predicare (Mt 4,17). Gesù ha chiamato il vangelo prima del Vangelo l’orecchio che intende. Chi non ha questo orecchio, anche se ascolta fisicamente la parola di Gesù, non ascolta il Vangelo. La retta comprensione è il primo sentiero nell’ottuplice sentiero predicato da Budda.
Oggi nella Chiesa non mancano i testi sacri o i dogmi o i riti; mancano piuttosto l’occhio che vede, l’orecchio che ascolta e il cuore che comprende. Manca piuttosto il vangelo che viene prima del Vangelo, senza del quale il Vangelo è annunciato invano. Il tentatore infatti ha insinuato che basta citare la Bibbia, celebrare riti e proclamare di essere figli di Abramo.
p.Luciano
* Compagna di una vita
Il brano del Vangelo che narra dei quaranta giorni nel deserto disturba la nostra visione abitudinaria e accomodante. Prima di tutto perché ci dice che la dialettica della tentazione è innescata dallo stesso Spirito che permette di non soccombere a essa, e che questa dialettica è parte integrante del cammino religioso. Con questo è messa in crisi la nostra visione manichea, che vorrebbe relegare il male a un increscioso incidente cui Dio eio Spirito sono estranei. Invece, qui come altrove nel Vangelo, vediamo che il male e il bene non sono campi separati, ma fanno parte dell’unica realtà, interiore ed esteriore, che dobbiamo approfondire e guardare faccia a faccia se non vogliamo che il nostro cammino religioso sia una ricostruzione artefatta della realtà anziché la mappa del rapporto sincero e diretto con essa. Anche nella preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli e a noi tutti, il «Padre Nostro», è detto chiaro che la tentazione, il male, non è un elemento estraneo al rapporto con Dio che viene da chissà dove a guastare la festa: «non ci indurre in tentazione…». Nel momento della solitudine e dell’abbandono, nel Getsemani, Gesù vede chiaramente che la sofferenza non è un’imperfezione sopraggiunta a contaminare una creazione altrimenti beata, ma è inscritta nella volontà del Padre ed è l’uomo che la eliminerebbe se potesse, non Dio: «allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). La tentazione allora è una necessità, e non la si supera una volta per tutte, ma occorre fare i conti con essa per tutta la vita: così è per ciascuno di noi come per il Figlio di Dio: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato».
Le tentazioni cui Gesù è sottoposto sono tentazioni di potere: o, per meglio dire, di uso del potere a fini personali. Gesù non si esimerà dall’usare il potere che gli è connaturato nel periodo della sua predicazione: guarigioni, segni, miracoli accompagnano l’annuncio del Vangelo, ma sono solo gesti di testimonianza di qualcosa di più grande e di più semplice: la rivelazione che la gloria di Dio si riveste delle vicende umane: il regno di Dio è qui vicino. La tentazione, invece, consiste nell’usare il potere che abbiamo, che ognuno di noi ha, per il proprio personale profitto. In termini buddisti, questo è detto con le seguenti parole dal patriarca indiano del primo secolo Nagarjuna, nel libro di Doghen Bussho [La natura autentica]: «Tu, se desideri vedere la natura autentica, anzitutto devi togliere di mezzo lo padroneggiare dell’io». La vera tentazione è invaghirsi di questo io, servirlo, idolatrarlo, credere in lui, dimentichi che non è che una nuvola al vento. Così Budda è tentato da Mara, re dei demoni: più in là delle seduzioni delle sue splendide figlie, c’è la seduzione dell’io, l’invito a inchinarsi al proprio io come realtà separata e autonoma, signore della propria vita. Alla stessa seduzione cede Faust: quella di dare alla propria anima valore indipendente ed eterno. Budda risponde restando seduto immobile, lasciando infrangere ogni specchio e immergendosi nel risveglio alla realtà che è comunione di tutto. Gesù risponde con il nome del Padre, che è riconoscere la volontà che mi fa vivere oltre la mia volontà di vivere.
Ma attenzione: la presa di coscienza che la mia vita non esiste per se stessa, ma sussiste e balza oltre il suo limite grazie alla vita che la rende viva, non basta a debellare il demone della tentazione: «Io non è uno solo, e spadroneggiare è multiforme», ammonisce ancora il patriarca. Poiché io è la strettoia da cui devo necessariamente passare per sperimentare l’essere, l’affezione che coltivo per esso è istintiva, e tende sempre a spadroneggiare. La tentazione ritorna sempre, sotto le più mentite spoglie, perché è inseparabile dall’esperienza di sapermi vivo. Con questa multiforme compagna farò i conti fino all’ultimo giorno: negare questa ambigua compagnia è il modo migliore per cedere senza neanche l’onore delle armi.
jiso
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