Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia.
13:3 Egli parlò loro di molte cose in parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi intenda». Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?». Egli rispose: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani. Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l’udirono! Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la reoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto. Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta».
* «Pur vedendo non vedono» e le parabole.
Credo che nessun annuncio del Vangelo sia così pregno di sapienza orientale come la sezione delle parabole. La parabola infatti è un’immagine, proprio come gli ideogrammi della scrittura orientale. L’immagine, a differenza della scrittura fonetica, porta l’attenzione di chi vede immediatamente all’oggetto concreto o all’esperienza concreta. In mezzo non c’è mediazione della mente. La scrittura fonetica, invece, anzitutto mette in moto la mente, affinché traduca i segni convenzionali delle lettere in un’immagine; poi lavora sull’immagine riprodotta sullo schermo mentale, come sul video di un computer. La mente, una volta messa in moto, non si ritira così facilmente; anzi fa da padrona e imprime al pensiero e al discorso un tono teorico. Slegata dal concreto la mente tende a correre avanti e forse si smarrisce proprio nelle idee chiare e distinte di cartesiana memoria. Chiare e distinte, ma spesso astratte e plastificate. Questo avviene anche nel cammino religioso. Io prete posso parlare del Buon Pastore, forse dedicargli anche la nuova chiesa appena costruita, e ignorare del tutto quali sacrifici implichi la vita del pastore che realmente segue le pecore nelle radure e sulle colline, sotto il sole cocente come sotto la pioggia gelida. Posso, col passare del tempo, finire per ritenere ovvio che la mia idea del pastore sia quella giusta, mentre il pastore reale così abbronzato dal sole e anche così sporco di terra e di letame sia un falso.
«Per questo parlo in parabole: perché pur vedendo non vedono e pur udendo non odono». La nostra mente avrebbe detto: proprio perché non vedono bisogna spiegare loro nel dettaglio, punto dopo punto, affinché vedano e capiscano. Bisogna spiegare! Tanta teologia, tanto catechismo e spiegazione. Invece Gesù parlava in parabole. La parabola svela e vela contemporaneamente, come ogni immagine. Svela, perché mette subito a tu per tu con la vita di ogni giorno. Vela, perché contemporaneamente fa percepire che il significato della parabola è lo stesso della vita, e comprendere la parabola equivale a comprendere la vita. Come non si può comprendere la vita senza viverla, così non si può sciogliere la parabola senza di fatto fare il cammino che scioglie la parabola.
«A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Qui il Vangelo è ironico. Infatti chi presume di aver compreso e messo a posto tutto quanto con la sua mente crede di avere. Invece non ha, e proprio la sua presunzione lo depaupera sempre di più, finché toccherà fondo. Quello sarà il momento in cui la parabola comincia a sciogliersi e a emettere la luce che indica la via, perché la catena della presunzione si è infranta.
La propria vita è per ciascuno di noi una lunga parabola. Prima ci allontana affinché constatiamo di non vedere, anche se presumiamo di vedere. Poi, quando la nostra presunzione si arrende, ci avvicina e ci addentra nella visione di ciò che è vero ed autentico. Nel susseguirsi degli anni e delle esperienze sperimentiamo momenti di tenebra e di luce, di allontanamento e di avvicinamento. Quello che ieri ci sembrava chiaro e distinto, oggi si trasforma in dubbio. E il dubbio di ieri si trasforma in luce di oggi.
Anche la chiesa è un’esistenza di parabola: peccatrice e santa assieme, vela e svela contemporaneamente, complica e scioglie gli interrogativi dell’uomo. La chiesa è una parabola non solo per gli altri, ma anche per se stessa, «perché pur vedendo non vedono e pur udendo non odono e non comprendono». Ogni ministro della chiesa è sempre, per sua natura, uno strumento che può velare, anziché svelare il Vangelo genuino uscito dal cuore di Cristo. La chiesa sperimenta di essere un segno di contraddizione. Nessun idealista può trovarsi a suo agio nella Chiesa: non può non denunciare le sue incoerenze storiche, fino al delitto dell’inquisizione, fino al suo attaccamento alla diplomazia e al potere del mondo, alla sua smania di steccati mentali di sicurezza quali i dogmi.
La Chiesa è scandalo: infatti molti suoi comportamenti appannano la luce e rendono il cammino verso Dio più lungo e accidentato. Proprio come le strade di montagna. La Chiesa è parabola: e sarà sempre così! Il limite e i difetti della Chiesa la costituiscono come il deposito della fede e i sacramenti che santificano. Sono quella parabola che confonde la smania pretenziosa dell’uomo di raggiungere la perfezione ideale e lo riporta a conciliarsi con la realtà umile della vita, dove anche i difetti, sgretolandosi con il pentimento, diventano buon terreno. Accettare la Chiesa, accettare la realtà e accettare se stesso vanno di pari passo: infatti ciascuno di noi permane, verso se stesso vanno di pari passo: infatti ciascuno di noi permane, verso se stesso, come una parabola; così la Chiesa permane a essere una parabola per il mondo. Gli apostoli nel Vangelo ci narrano i loro entusiasmi di essere discepoli di Cristo come anche i loro limiti e le loro infedeltà: annunciano il Vangelo svelandolo, poi lo velano sotto la parabola delle loro incoerenze. Così avviene, perché l’esultanza di aver trovato e di vedere Dio non vanifichi mai il fondamento di ogni virtù che è l’umiltà.
* Quattro cavalli
C’è una parabola buddista speculare a quella che è il tema del Vangelo di oggi. Speculare perché, come vedremo, gli elementi restano gli stessi (la parabola come metafora del rapporto fra la verità e la vita, la parola come veicolo di insegnamento, le quattro diverse condizioni di cui entrambi i testi parlano) ma l’immagine complessiva risulta al contrario, come riflessa in uno specchio: l’accento non è posto infatti sulle condizioni del terreno, ma sul cosa fare perché ogni terreno diventi recettivo. Le due parabole sembrano dunque completarsi a vicenda, rimandandosi l’una l’immagine dell’altra. È stimolante metterle allora una di fronte all’altra, e metterci noi per così dire nel mezzo, lasciandoci attraversare dalle riflessioni che esse si rimandano. Mi limito perciò a riportare il testo di quella parabola buddista, così come è narrata in una sezione dello Shoboghenzo, intitolata Shi Me (Quattro cavalli), scritta, sulla base di un’istruzione di Doghen, dal suo discepolo Ejo nel 1255. Ne traduco alcuni brani.
Nessun tag per questo post.«Un giorno una persona che non era buddista si recò da Shakyamuni Budda e gli fece domanda dicendo: “Non chiedo il dicibile, non chiedo l’indicibile”. Shakyamuni sedette immobile a lungo. Quell’uomo, ammirato, si inchinò profondamente e disse: “Che bello, Shakyamuni, che grande amorevole misericordia! Disperdo le nuvole dell’illusione, l’ingresso della via è aperto di fronte a me”. Di nuovo si inchinò e partì. Dopo che fu andato, Ananda stupito chiese allora a Budda: “Quell’uomo non credente quale vantaggio mai ha ricevuto per dire che gli si è aperto l’ingresso della via e per andarsene così ammirato?” Disse Sakyamuni: “Come un buon cavallo, che corre alla vista dell’ombra del frustino”». Questo episodio è noto come Il non credente interroga Budda.
«Bisogna sapere che presso Sakyamuni vi sono due tipi di metodo, il santi silenzio e la santa spiegazione. Coloro che, grazie a essi, fanno il loro ingresso nella via, sono tutti “il buon cavallo che corre al solo vedere l’ombra del frustino”. Anche coloro che fanno ingresso nella via grazie a un mezzo che non è né il silenzio né la spiegazione, sono a loro volta così».
«Il patriarca Nagarjuna dice: “ La persona che (entra nella via) grazie alla spiegazione di un’espressione (delle scritture), è come il veloce cavallo che imbocca la strada giusta al solo vedere l’ombra del frustino”».
«Nello Zo Agon Kyo è scritto: “Budda disse all’assemblea riunita: Ci sono quattro tipi di cavalli; il primo, appena vede l’ombra del frustino, immediatamente impressionato ubbidisce al volere del padrone; il secondo tipo, quando gli si sfiora la criniera, allora si impressiona e ubbidisce alla volontà del cavaliere; il terzo, quando gli si colpisce la carne, allora soltanto si spaventa e si rende conto; il quarto tipo, quando gli si colpiscono le ossa, allora davvero capisce. Il primo cavallo è come uno che, percepita la transitorietà all’udire della morte di qualcuno nel villaggio vicino, origina in se il cuore del distacco dal mondo; il secondo è come uno che, percepita la transitorietà all’udire della morte di qualcuno nel suo villaggio, origina in se il cuore del distacco dal mondo; il terzo cavallo è come uno che origina quel cuore quando si rende conto della transitorietà per la morte di un parente stretto; il quarto è come chi, solo quando sente nel suo corpo il dolore della malattia, allora veramente origina nel suo cuore il distacco da questo mondo.” Questi sono i quattro cavalli dell’Agon Kyo».
[…] «Nel grande sutra è scritto: “Budda disse: Miei buoni figli, quanto agli addestratori di cavalli, ci sono quattro sistemi. Il primo è sfiorare la criniera, il secondo è toccare la pelle, il terzo è colpire la carne, il quarto è colpire le ossa. A seconda della parte del corpo che si colpisce, il cavallo si conforma al volere del cavaliere. Così è anche il Perfetto, che libera dal male e fa entrare tutti gli esseri nella giusta via, usando quattro tipi di istruzione. Il primo è quando uno, ricevuto l’insegnamento riguardo al nascere, allora accoglie la parola di Budda; questo è come ubbidire alla volontà del cavaliere al tocco della criniera. Il secondo è quando uno, ricevuto l’insegnamento riguardo al nascere e all’invecchiare, allora accoglie la parola di Budda; questo è come ubbidire alla volontà del cavaliere al tocco della criniera e della pelle. Il terzo è quando uno, ricevuto l’insegnamento riguardo al nascere e all’invecchiare e alla malattia, allora accoglie la parola di Budda; questo è come ubbidire alla volontà del cavaliere quando sono colpite criniera, pelle e carne. Il quarto è quando uno, ricevuto l’insegnamento riguardo al nascere, all’invecchiare, alla malattia e al morire, allora accoglie l’insegnamento di Budda; questo è come ubbidire alla volontà del cavaliere quando sono colpite criniera, pelle, carne e ossa.” Questi sono i quattro cavalli del Sutra del Nirvana».
[…] «Che nascita-invecchiamento-malattia-morte diventino insegnamento, deriva dal fatto che la nascita, l’invecchiare, la malattia, la morte di Sakyamuni Budda stesso sono divenuti insegnamento: non è al fine di separare gli esseri viventi dalla nascita, dall’invecchiamento, dalla malattia, dalla morte. Nascita, invecchiamento, malattia, morte non esprimono la via in quanto tali, né vengono insegnati perché si dissolvano nel momento in cui quei quattro siano divenuti essi stessi via. È in virtù del fatto che nascita, invecchiamento, malattia, morte sono divenuti insegnamento, che tutti gli esseri raggiungono la realtà del supremo risveglio alla libertà definitiva. Per questo il Budda Sakyamuni, che libera dal male tutti gli esseri, mai invano, è chiamato anche “il buon cavaliere che guida”».