“τέλος γάρ νόμου Χριστός”
In questi giorni ho fatto una scoperta, per me sorprendente, di un versetto del Nuovo Testamento che non conoscevo. L’avevo letto più volte, ma non lo cercavo, per cui quelle parole sfilavano mute davanti ai miei occhi disattenti. E’ un versetto della Lettera di Paolo ai Romani (Rom 10, 4). Eccolo:
“Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede”. (Trad. CEI) Nell’originale greco l’espressione di Paolo è più asciutta e potente:
“τέλος γάρ νόμου Χριστός είς δικαιοσύνην παντί τπ πιστύοντι”
che tradotto letteralmente in italiano diviene:
“termine infatti di Legge (è) Cristo, indi l’essere giusto a (di) ogni credente”.
Da quando lo ascoltai nella celebrazione eucaristica del 6 giugno, il versetto della Lettera ai Romani continua a togliermi pace e quindi a ridarmi pace, sempre più nel profondo. E’ noto quanto Paolo intendesse contrapponendo “legge” e “grazia”. La legge è tutto quanto diviene “pedagogia” alla nostra ricerca della giustizia, della gioia e della pace. “Così la legge è stata per noi un pedagogo” (Gal 3, 24), scrive. La legge ci indica il sentiero giusto da percorrere e ci mette a disposizione il vademecum delle norme per non deviare. La legge è la struttura che sostiene i comportamenti individuali e sociali. E’ la morale, è l’ordine civile, è la perfezione, è la virtù, è il buon comportamento. E’ tutto ciò in cui nel futuro della tecnologia perfetta l’uomo potrebbe essere sostituito dal robot, in quanto si si richiede precisione ed efficienza, e si sa che le macchine sono più precise dell’uomo. Ma, afferma Paolo, “nessuno infatti sarà salvato perché osserva la legge” (Gal 2, 28). La salvezza non è un affare, non è un risultato. La salvezza è grazia: “… per grazia siete salvi mediante la fede”, scrive ancora Paolo alla comunità di Efeso (Ef 2, 5), grazia a cui un bambino con handicap fisici o mentali non rimane indietro; anzi: “nel regno dei cieli il più piccolo è più grande” dell’asceta Giovanni il Battista che Gesù dichiara “il più grande tra i nati da donna” (Mt 11, 11). Più grande anche di se stesso e della sua santa madre Maria. Infatti, Cristo è “Il termine della legge”, scrive Paolo che pure, tra i discepoli, fu il più innamorato di lui.
La via della “legge” è la ricerca della perfezione, del successo, del non decidere o esporsi per non sbagliare. La legge ha mani e piedi, ma è senza il cuore; è come un robot. Mira alla perfezione senza conoscere e attraversare il vuoto, mentre il cuore, appena si riempie, si contrae e ritorna vuoto; quindi si dilata ancora, e ritorna pieno, senza sosta. La legge è assoluta, la grazia invece è dinamismo che diviene, è fluire, è tempo, è stagioni, è il pieno del peccato, è il vuoto della conversione. Senza la grazia, l’uomo è un perpetuo fallito a se stesso preteso perfetto; nella grazia, il peccato è via alla conversione che porta nel cielo una gioia più grande di quella di novantanove perfetti messi assieme (Lc 15, 7). Mentre, fuori dalla grazia, la virtù degrada in vanto, la verità in roghi, la pace in quietismo.
Senza la personale esperienza della conversione, il Cristo da “termine della legge” viene fissato come meta finale, oppure come centro a cui tutto confluisce e far confluire. La testimonianza diviene proselitismo. E, infine, la salvezza diviene paura dell’inferno. Il Cristo, pane da spezzare e mangiarne tutti, e calice di vino da far circolare e berne tutti nel perdono fraterno, diviene un oggetto assoluto da adorare. Chi di noi ha visto il film “Uomini di Dio” ricorda senz’altro quella vera celebrazione eucaristica dei monaci di Tiberine, la vigilia del loro sacrificio.
“Il termine della legge è Cristo”. Ogni teologia cristocentrica, ponendo il Cristo sul vistoso piedistallo al centro dell’universo, non necessita la fede; le è sufficiente enumerare i successi storici della chiesa cristiana, velando le tante contraddizioni, o forse cercandone le giustificazioni. Perfino le tante espressioni riportate nel Vangelo sul Gesù “termine della legge”, vengono sottaciute come improprie per una cristologia accentratrice.
All’ultima cena disse: “E’ bene per voi che io me ne vada, altrimenti, se non me ne vado, non verrà a voi il Paracleto” (Gv 16, 7).
Cristo, termine della legge, è quindi inizio dell’avventura della grazia. E’ la soglia dove la legge, ossia la fatica della ricerca, si consegna all’afflusso della grazia, e la grazia purifica i piedi impolverati della ricerca. Sta sempre sulla soglia, a sostenere il discepolo a saper morire alla legge, per il cui compimento ha tanto faticato, e ad accoglire la grazia nelle mani nude e vuote. Muore e risorge insieme con ongi discepolo. Così, finché la pasqua, il passaggio non sia completo. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”, disse dopo aver spezzato il pane e fatto circolare il calice del vivo. “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). E’ l’eucaristia che noi continuiamo a celebrare!
“Termine della legge è Cristo”.
Le parole di Paolo in questi giorni continuano a scorrere dentro di me, rinvigorendo la mia umanità, come un sorso d’acqua fresca nell’arsura del deserto. Sempre più mi è evidente che tutto quanto posso aver raggiunto attraverso la ricerca e praticato nel mio cammino religioso, ossia tutta la legge che mi ha guidato a questo oggi, segna un termine raggiunto. Da tempo avvertivo il limite del Cristo stesso a cui mi sono consacrato come religioso, sacerdote e missionario. Così pure avverto il limite della zazen, che pure amo praticare quotidianamente insieme con la preghiera e l’ascolto del Vangelo. Non trovo più senso nel cercare un assoluto a cui aggrapparmi. Piuttosto sento l’assoluto, se così posso chiamarlo, scorrere nel tempo, nell’esistenzialità, nei volontari che curano i contagiati dal covid, come in coloro che attraverso il covid sono passati oltre. Continuo a riconoscere un paradiso e un inferno, ma come segnaletica della legge, che lascio sciogliere nelle acque del battesimo nella grazia. Le acque portano via.
Quando mi blocco e guardo indietro, lui mi dà un spinta a tuffarmi nel vuoto della grazia. “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù… Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge: siete decaduti dalla grazia” (Gal 5, 1-4).
Sperimento sempre più che tutto conduce alla consapevolezza che, se io non dico il mio sì a consegnarmi al vuoto di ciò che ancora non è, tutto torna indietro e decade. Se mi consegno, nasce un germoglio. La parabola di Gesù dice: il seminatore “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso (il seminatore) non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga… “ (Mc 4, 27-28).
Solo il mio atto di volontà, mentre non vedo nulla, è mio. Pongo il mio atto di volontà, e il Cristo che sta alla soglia mi conforta: “Non prendere paura e non voltarti indietro. Sii libero. Va’!”. Allo spuntare spontaneo del germoglio dal terreno: stupore e riconoscenza.
Paolo aggiunse: “Tutto posso in colui che mi conforta” (Fil 4, 13).
p.Luciano
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