Quanto difficili le cose semplici!
“Signore, bisogna raccoglierla!”. Stamattina dalla mia finestra ho gridato queste parole a un signore che conduceva a passeggio il suo cane, grossa taglia, di pelo color fulvo. Ma l’uomo non si è chinato a raccogliere. Di risposta un gesto concitato come dire “pensa ai fatti tuoi!”, per poi continuare, pettoruto, la passeggiata in coppia con il suo cane. La cacca del cane, anche questa di color fulvo, è rimasta lì sull’asfalto scuro bagnato dalla pioggia. A modo suo, si è aggiunta ai cimeli di questo quartiere delle belle arti di Milano, il quartiere Brera. Nella sua naturalezza è anch’essa un capolavoro; il comportamento del padrone del cane: no!
Una scena che ripetutamente si vede lungo le vie di Milano è quella di persone vestite all’ultima moda che un po’ strattonano uno o più cani anche di grossa taglia tenuti al guinzaglio, e che a loro volta si lasciano strattonare dai loro cani. Quale delle due parti sia il regista della passeggiata, ossia il padrone, risulta alquanto difficile discernerlo. Forse nessuna delle due. Parti che sconfinano nell’indistinto e nell’opaco. Ci può essere gioia dove non c’è il rispetto del limite che contraddistingue ciò che è proprio e ciò che è dell’altra parte? Nelle fattorie o negli ovili il cane fa la sua parte da regista e l’agricoltore o il pastore fa ugualmente la sua da regista, ciascuno al suo posto, e tra l’uomo e il cane vige la distanza del reciproco rispetto della propria specie e dei propri ambiti. In alcune case dove c’è un bambino con handicap, lì un cagnolino fa la parte dell’angelo custode.
“La spiga vuota non china il capo” è un proverbio giapponese che, in forme differenti ma equivalenti, credo sia presente in tutte le culture. Nasce dall’osservazione del campo di riso a inizio autunno, quando le spighe ormai mature chinano il capo sotto il peso dei chicchi. Quelle invece che restano diritte a far bella mostra sopra le altre sono quelle vuote.
In questi tempi covid non pochi operatori e operatrici sanitari, volontari, religiosi e gente comune senza particolari titoli professionali, hanno chinato il capo fino al punto di sacrificare la propria vita nella dedizione di salvare la vita altrui. Ugualmente, molti anziani che, dopo una vita di sudore, forse per non appesantire le famiglie dei propri figli, spontaneamente avevano scelto di ritirarsi in una casa di riposo, lì nel limite del loro eremo esistenziale hanno chinato il capo fino a terra, in solitudine.
“Questo assillante parlare di covid logora!”: è il lamento di molti in questi giorni. Il numero dei contagiati, dei degenti in terapia intensiva e dei decessi è in crescita! Non è ovvio parlarne continuamente per mettere in guardia? Del resto è quanto anch’io ora sto facendo!
C’è un parlarne chinando il capo e c’è un parlarne alzando il capo. Le spighe senza chicchi svolazzano nell’aria, un po’ a sinistra e un po’ a destra, a seconda del vento. Ciò non è possibile a una spiga carica di chicchi maturi. La maturità pesa. A questo punto vorrei ringraziare la chiesa italiana che con norme molto precise ha indicato a noi sacerdoti e ai fedeli il limite di ciò che ci è proprio e di ciò che è di altri. Del resto il covid è riuscito a convincere noi preti da una parte e, dall’altra, i fedeli della comunione quotidiana e della confessione settimanale che si può continuare il cammino di fede senza questi consueti appuntamenti. Grazie al covid andiamo accorgendoci che stavano diventando un po’ troppo consuetudinari, un po’ troppo allegri, un po’ troppo per aria come quelle spighe.
Un giorno chiesi all’abate dello Zen, Kōhō Watanabe, che viveva nella comunità saveriana di Reggio Calabria, da dove comincerebbe per insegnare lo Zen a noi italiani. Rispose: “Dopo aver usato una sedia, rimettila al suo posto”. Sembra una risposta troppo facile, quasi banale. Eppure è la scuola a conoscere la misura delle cose e il confine di ciò che è mio proprio, e di ciò che è di altri. Il mettere a posto una sedia dopo averla usata aiuta a tenere i piedi per terra. Quel lasciare la sedia fuori posto per correre a mettere a posto altre cose denota affanno, spaesamento, ventate per aria.
Ieri, 16 ottobre, ebbi l’occasione di dialogare con due giovani muratori intenti a restaurare il seminterrato della chiesa di Sant’Alessandro (Padri barnabiti), dove giace ancora parte del mobilio di Vangelo e Zen da Desio. “Speriamo che questo covid non ritorni a interrompere il lavoro che avete appena ripreso!”, fu il mio augurio, come conviene a un prete. “Se ritorna interrompiamo di mettere a posto questo muro e metteremo a posto il covid. Poi ritorneremo a finire di mettere a posto questo muro!”, rispose il fratello maggiore.
Ho chinato il capo!
p. Luciano
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