(di Clara Gismondi)
Il viaggio in Giappone, attraverso l’itinerario preparato dai conduttori del gruppo, è stato un viaggio di conoscenza a più livelli:
* dei luoghi, della loro varietà sia dal punto di vista naturalistico che umano (sia riferito alle persone e alle loro differenze nei tratti somatici che alle “cose” che sono opera dell’uomo come la struttura delle città, all’architettura quindi alle case, ai negozi, ai templi, ai musei, ai santuari…);
* delle abitudini alimentari;
* dei comportamenti sociali nei vari luoghi di incontro;
* dei luoghi religiosi e delle persone che vivono in quei luoghi;
* del cuore religioso, della spiritualità orientale;
* delle dinamiche che si creano nella vita di gruppo.
Un viaggio quindi che va dalla scorza esterna, quella superficiale, epidermica verso l’interno, il cuore, il centro.
L’esperienza mi ha portato a provare delle sensazioni molto forti.
Vi sono stati luoghi che mi rimarranno per sempre nel cuore perché mi hanno trasmesso quanto può essere profonda e silenziosa la vera comunicazione.
L’impatto con il Giappone moderno e tecnologico è stato in qualche modo di aiuto a tutto questo: un punto di partenza. Il Giappone è anche questo: contraddizione; l’uomo che sembra allontanarsi dal bisogno di essere in simbiosi con la natura e si snatura, un piccolo robot sempre pronto all’efficienza, che si ritaglia a malapena degli spazi personali. In questo paesaggio di cemento, immagino uomini costretti a dividere minuscoli locali, scatolette che soffocano l’anima.
Credo che tutto questo faccia parte un po’ del mio immaginario oltre che di un effettivo sconvolgimento dell’esistenza da parte dei cittadini della grande metropoli, Tokio.
Tuttavia io penso che in fondo la natura dell’uomo giapponese sia sempre la stessa.
È vero che parte della cultura tradizionale si va perdendo ma la struttura portante della società è ancora molto salda e così lo spirito orientale. Si veda il linguaggio, sia nella comunicazione orale che scritta; si vedano le relazioni sociali e i rapporti tra subordinati e superiori; l’educazione e l’istruzione anche nelle manifestazioni esteriori come può essere la divisa scolastica; il comportamento nei luoghi pubblici; l’ordine e la pulizia; la puntualità; la grande attenzione verso le piccole cose; l’educazione all’ascolto e al silenzio; la predilezione verso un apprendimento fatto di imitazione più che di parole; i riti quotidiani, in ambito familiare e i riti sacri nei templi buddisti e nei santuari scintoisti.
Tutto ciò che si può osservare è frutto di una cultura radicata nei secoli ed è solo una parte del Giappone, che si cela ai più e per molto tempo prima di rivelare qualcosa di sé. Le persone non relazionano fra loro nel modo in cui siamo abituati noi occidentali: la loro comunicazione viaggia seguendo sintonie diverse. Essi hanno un rapporto speciale verso la Natura, la considerano come la materializzazione dell’Assoluto e la loro spiritualità viene approfondita a partire da questa.
Occorre molto tempo prima di arrivare nel cuore del Giappone e dei Giapponesi ; bisogna acquisire una sensibilità particolare, disposta a sintonizzarsi con la vita in modo diverso. Vi sono luoghi in Giappone che sono particolarmente pregni di spiritualità e che aiutano a capire meglio cosa si intende quando si dice che il Divino si diluisce e si fonde nella Natura.
Nel viaggio intrapreso dal nostro gruppo vi è stato un posto particolarmente significativo da questo punto di vista, l’eremo Soan di Padre Oshida. Anche l’itinerario seguito per arrivarci è stato singolare: abbiamo attraversato la regione dell’Honshu fino a raggiungere quella del Kyushu e viceversa, in pochissimi giorni . Il gruppo iniziale si era diviso in due piccoli gruppi; uno è rimasto allo Shinmeizan, un centro di spiritualità e dialogo interreligioso diretto da Padre Franco Sottocornola situato tra le colline di KIkusui mentre l’altro si è diretto verso l’eremo. Il piccolo gruppo si è dimostrato subito più funzionale: gli spostamenti più rapidi, l’intesa più facile inoltre una maggiore rilassatezza generale hanno permesso di raggiungere la meta senza contrattempi , in armonia. Giunti con il treno presso un paese situato vicino al monte Fujiyama, abbiamo raggiunto l’eremo in breve, in macchina.
- All’eremo
L’eremo di Padre Oshida ha rappresentato per me il culmine dell’esperienza vissuta in Giappone.
In quel posto ho trovato quel che cercavo.
Nell’umiltà e nella semplicità di quel luogo ho sentito e visto cosa significa essere in simbiosi con la madre terra. Lo scorrere di ogni cosa non ha bisogno di ritmi dettati dall’uomo; è l’uomo che si adatta al ritmo della natura, al suo respiro, al suo palpitare. L’atto semplice è talmente vero che si confonde con le cose che lo circondano. E questo è più vero quando la nostra mente smette di avere aspettative o di essere in posti diversi da quello in cui ci si trova.
Quando il silenzio respira, ogni cosa respira, ogni cosa scorre per sua natura, senza alcun impedimento. Allora, come acqua che scorre, mi affido alla corrente della vita con grande fiducia.
Non appena sono stata alla sorgente ho percepito che quel luogo mi stava accogliendo; mi parlava una dolce melodia: mi diceva che io facevo parte di quel posto come di ogni posto. Attraversando il silenzio o il suono si può arrivare all’essenza delle cose ugualmente. Se si è capito che nel silenzio c’è il tutto, si può passare con celerità anche nel suono: c’è un fluire continuo, senza pause. Essere fuori dal frastuono del mondo e “non fare” è altrettanto importante che essere attivi e aiutare con la propria opera chi è nel bisogno.
In ogni persona ci dovrebbe essere il giusto equilibrio tra vuoto e pieno, sia nei pensieri che nelle azioni. La Natura è maestra in questo. Lo scorrere dell’acqua mi ha confermato che ogni cosa che facciamo o che non facciamo ha un riverbero. Il nostro operare in un piccolo luogo, in modo semplice, una vita reale è fare la propria parte per questo mondo.
Tutto scorre.
Il tempo cancella tracce del passato e, inesorabile, avanza. Non c’è tempo per fermare lo sguardo su ciò che era.
All’eremo, il luogo parlava, raccontava di sé.
Ogni cosa era stravissuta, riutilizzata più e più volte, anche in modo diverso dal consueto. Gli scritti, che tappezzavano la parte alta di una parete, ormai logori, sporchi e laceri, utilizzati non certamente per abbellimento, dicevano quanto ogni cosa si facesse, era essenziale. E quella che sembra povertà acquisisce in sé una grande ricchezza. Gli oggetti utilizzati per tante e tante volte acquistano un valore affettivo; anche allo sguardo di un estraneo è evidente che “quella cosa” è più di quello che è. Ogni cosa vive almeno due volte: la prima volta non ha una vera e propria identità, l’acquisisce con il tempo; un’altra volta ancora quando è rivisitata e fatta rivivere come un’altra cosa.
Questo mi ricollega al concetto “mente da principiante”: non aver strutture mentali fisse, essere flessibili, diventare “altro” ogni volta come fosse la prima volta. L’acqua insegna: un elemento così duttile, che modella ed è modellato, che si adatta al contenitore, che scorre e non è mai uguale; linfa vitale che purifica, che toglie le scorie, le tossine.
Kawazumi Hiroko è la suora di clausura che vive all’eremo e prosegue l’opera di Padre Oshida.
La sua figura si adatta perfettamente al luogo dove abita. Ne è entrata talmente dentro che sembra anche lei parte di ciò che la circonda. Il suo sorriso come la sua serietà, il dolore come la gioia traspaiono con grande semplicità e intensità tuttavia nei tratti del volto non c’è mai esagerazione; il suo incedere è leggero, senza forzature.
Anche lei è come acqua che scorre.
Con Hiroko c’era una signora che abita a Tokio e spesso, per brevi periodi, la va a trovare e l’aiuta nella vita quotidiana. Ella afferma che in quel luogo e vicino a quella persona ritrova la pace. Tale donna emanava una luce di serenità; sembrava una pietra posata che, quieta, si amalgama a tutto il resto: in quel posto ha trovato quel che cercava.
Ascoltare è importante forse più che parlare.
Saper ascoltare vuol dire porre tutta la propria attenzione nell’atto di ricevere. E non si ricevono solo parole: anche atmosfera, energia, emozioni, spiritualità. Questo è più facile con la Natura che con le persone; sembra che le parole generino altre parole, che si inquini qualcosa: non c’è più ascolto, non c’è più amore. Un atto di amore è un atto anche fatto di quotidianità ma disinteressato, cioè privo di interesse verso se stessi. Quante volte ho visto mia madre in questa luce!
Ritorniamo all’eremo: nel battere con il bastone la bombola del gas adibita a campana, vi erano dei rintocchi lunghi, brevi, forti, lievi; era il richiamo alle diverse funzioni della giornata, i pasti, lo zazen, la messa; era l’unico punto di riferimento legato al tempo e al ritmo delle attività quotidiane.
Tutto scorreva come acqua di sorgente.
Ascoltando tale ritmo si entra in un ritmo più grande, un respiro profondo che viene dalla profondità della terra, un richiamo atavico. Anch’io sono terra e sono acqua; anch’io sono fango; anch’io mi plasmo per amalgamarmi.
Intorno alla casa di Hiroko vi erano dislocate, a diverse distanze, alcune casette, costruite con diversi materiali. Le più tradizionali erano di legno con il tetto in paglia e non avevano al loro interno la luce elettrica. In tali abitazioni , distribuiti a gruppetti, abbiamo preso alloggio. Bruna, Rosanna ed io abbiamo pernottato in una casetta adibita a libreria e luogo di studio. Essa aveva sia la luce elettrica che il bagno: un lusso!
I miei compagni di viaggio sono stati in qualche modo tutti coinvolti emotivamente da quel posto. Anche loro percepivano qualcosa di speciale.
Un luogo con un cuore.
Ricordo quando abbiamo visto nel boschetto vicino alla cappella, i tronchi tagliati, alcuni incisi e modellati; sembravano dei totem. Erano il simbolo dell’impegno per la Pace .
In un angolo, su un ceppo, era posto un piccolo Budda che aveva tra le braccia Gesù; egli era il suo cuore. Che sensazione di amore e dolcezza materni!
Padre Oshida ha amato molto quel luogo: si percepiva molto bene! Alla sua morte egli ha voluto essere portato alla fonte ed essere posto nella terra. Acqua e terra ritornano come elementi dai quali siamo generati, dei quali siamo parte, nei quali ritorniamo quando moriamo.
Le parole impresse sul kakemono recitano:
Afurureba nagararu nari
nagare no hibichi wa
arigataki kana,
arigataki kana.Se c’è la fonte c’è il ruscello,
ecco lo scorrere,
grazie,
grazie,
Prima di morire egli ha detto “Sono un piccolo uomo”.
La carità del Vangelo e la compostezza dello Zen sono ben rappresentati nell’eremo Soan: essi sono l’anima dell’esistenza. Quando si penetra nell’anima delle cose è perché noi ci rendiamo disponibili a questo come è altrettanto vero che noi siamo penetrati da quelle cose nel momento in cui c’è trasmissione di “energia, apertura, fiducia,…”
Non c’è differenza tra me e il ruscello o tra me e la terra. L’armonia esiste quando io mi “confondo” in tutto ciò che mi circonda; non esisto più in quanto individuo distaccato da quella cosa: Sono in grado di percepire ancora la forma ma so che in qualche modo quella forma è illusoria; essa è di più di quello che appare. La sua entità e la mia sono manifestazioni della vita,
dell’ ”essere”, nella totalità e non separate.
Cosa porta una riflessione di questo genere in termini di vita quotidiana, vissuta lontano da quella natura che mi è consona, da farmi intuire la vera essenza delle cose? È così difficile ricreare le condizioni nella vita ordinaria?
La fonte è ovunque.
Non ha un luogo preciso, non ha un tempo.
Se io devo essere il ruscello, perché ci sia lo scorrere non devo limitare la mente a un qualcosa di definito, a una forma precisa. Quel luogo può essere qualsiasi luogo. Da ogni situazione posso ricevere, imparare come è vero che posso dare.
Qui interviene il cuore. Un sentiero deve avere un cuore, non è una questione intellettuale; la mia anima allora si dona al reale, all’altro da me ma che include anche me. La diversità ci fa intravedere che la mia diversità e la tua, formano qualcosa di più grande, che riunisce tutte le diversità. Così come diciamo che ognuno ama in modo diverso, ma l’Amore comprende ogni modo di amare. L’individuo coglie una particella di quell’amore. Quando sentiamo che siamo “uno”, anche noi abbracciamo qualcosa che ci include, che non possiamo “comprendere” perché esso è incommensurabilmente più grande di noi.
In sintesi: Un cammino verso la semplicità dell’essere, un cammino di condivisione: il luogo e il tempo non importano.
Penso allo sgorgare dell’acqua dalla roccia: la sorgente.
Acqua che sorge, che emerge dalle profondità della terra, che si eleva a nuova visione con una vitalità sua, un’energia rinnovata, pura. Sembra la visione di come potrebbe essere anche per noi esseri umani se lasciassimo emergere dalla profondità della nostra “terra” la nostra Natura, con spontaneità, lasciandola sgorgare in superficie perché dia vigore nuovo. Lasciare che tutto scorra, dentro e fuori di noi, non trattenere nulla, non separare, Ecco che ritorna l’uno.
Il Giappone è una terra rigogliosa, generosa, severa. Vi sono fenomeni naturali molto “forti”: alluvioni, tifoni, terremoti, eruzioni vulcaniche. Questo movimento sopra e sotto la terra ha plasmato sicuramente il popolo giapponese che da secoli ha dovuto e saputo adattarsi al luogo di nascita, in un continuo saper accettare con compostezza, umiltà.
E ogni volta ricominciare da capo.
Anche la personalità del Giapponese sembra far scorrere la propria interiorità molto in profondità per farla emergere talvolta a piccoli tratti. È un animo delicato che cela anche moti impetuosi ma non ama esternarli. Di fronte alla realtà preferisce più il silenzio che l’espressione dell’io, ne sa cogliere meglio le sfumature così facendo, sa impregnarsi delle cose che lo circondano, sa ricevere. I bambini sono educati al silenzio con naturalezza. Nelle nostre scuole questo valore andrebbe nuovamente coltivato così come tra le persone adulte che spesso parlano troppo.
Forse ci crediamo troppo importanti!
La natura, così grande, ci sovrasta, ci mostra la nostra inferiorità ed è maestra senza pari. La verità è apparentemente nascosta ma è sempre stata lì; siamo noi che dobbiamo avere nuovi occhi per vedere e orecchie per ascoltare.
Cito un passo da un libro intitolato “Lo zen e l’arte di disporre i fiori”.Dal capitolo”Arte e natura” si legge:
“Per il Giapponese, la vita e l’arte, la natura e lo spirito formano un tutto pressoché indissolubile. Egli ha la sensazione che la natura sia dotata di anima propria e che lo spirito sia una manifestazione spontanea, altrettanto naturale. Per lui la natura non è inanimata né priva di spirito, essa non è solo il simbolo formale di una realtà diversa. L’eternità stessa è immanente e si manifesta nella sua viva bellezza.
Per il Giapponese l’armonia è il fondamento originario, la prima forma assoluta di manifestazione della natura, della vita e del mondo, e l’unico oggetto dell’arte è l’espressione di questa armonia ricondotta fino a un livello di “coscienza inconsapevole”. L’artista ascolta le sue lontane modulazioni, le fa emergere dalle sue profondità, le domina e le porta alla luce…”.
L’arte di vivere e il modo religioso di intendere la vita sono un tutt’uno: il porre attenzione ad ogni attimo e nello stesso tempo lasciare andare con generosità, senza pretese e aspettative; entrare nel flusso della vita con consapevolezza.
In una foglia disidratata, bucata, mangiata, c’è una grande bellezza. Perché? Ogni cosa parla della vita e del suo scorrere: come sarebbe poco reale una foglia perfetta. E nello scorrere c’è il donarsi come cibo per altri.
Nei campi , non lontano dalla casa c’erano diverse risaie. Le piantine erano completamente sommerse dall’acqua. Osservando il campo allagato sono ritornata con la memoria ad Antaiji: com’era diverso. Sebbene quel luogo sia stato il primo vero incontro con il Giappone che cercavo, ha lasciato in me un ricordo di incompiuto, una visita troppo breve. L’esperienza nella risaia è stata comunque istruttiva.
Il lavoro assegnatomi all’eremo era quello di estirpare erbacce in un piccolo campo coltivato. In questa attività come nella risaia vi sono alcune cose che si accomunano: per prima la difficoltà di non riuscire a togliere solo le erbacce. Infatti anche le piantine rosse che vengono utilizzate in cucina per preparare gli umeboshi, venivano in qualche modo sollecitate dallo sradicamento e, dato che il terreno è friabile, era arduo riuscire nell’intento. Qui intervengono la concentrazione, la delicatezza, l’attenzione per ciò che si fa, l’immedesimazione in ciò che si è chiamati a fare.
Come seconda cosa è un lavoro che non è mai veramente finito: estirpare erbacce occorre farlo finché esiste un’area da pulire. E pulire ogni volta come fosse la cosa più importante!
Se non c’è spazio le altre piante soffocano; il troppo pieno soffoca quindi c’è bisogno di pulizia,, di vuoto e di regolarità nel farlo. È un allenamento per la vita quotidiana: svuotare per liberare, ecco la vera pulizia della mente. L’atto fisico aiuta il corpo ad entrare in sintonia con la mente e se l’azione è semplice è liberante (anziché alienante come in fabbrica).
Tagliare con la spada, nell’allenamento , non vuole avere l’intenzione di combattere contro un nemico esterno ma contro il proprio ego. Ho sempre avuto l’impressione che all’eremo le persone fossero in tale armonia con l’ambiente da confondersi con esso. Loro hanno annullato il proprio ego. E ciò che le fa risplendere è quella mitezza di chi ha raggiunto la pace con se stesso.
* Un luogo di incontro.
La cappella è una casetta in legno, composta da un piccolo vano. All’interno, le pareti e il pavimento , anch’essi in legno, sono anneriti dal tempo. Non c’è luce elettrica e la luce del giorno filtra dalla porta e dall’unica finestra esistente. Sul pavimento vi è un tappeto che copre una buona parte dello spazio: lungo le pareti, gli zafu per lo zazen e pressoché al centro della stanza alcuni libri per la preghiera e la Bibbia; in un contenitore, alcune candele e in un braciere, legnetti da ardere. Appesa alla parete centrale una grande croce in legno che si confonde con quello che la circonda.
Un ambiente molto semplice ma che racchiude la sintesi Cristiana-Zen: un luogo di incontro. Lì si celebra la messa, lì si fa zazen. Padre Oshida diceva di sé: “Io sono cristiano perché buddista”.
Ecco, quel piccolo posto ben rappresenta il suo sentire, ne testimonia l’eredità spirituale. E così, per estensione, l’eremo e tutto ciò che lo circonda.
Anche la signora Hiroko, che gli ha vissuto accanto per molto tempo, ha assorbito molto di lui, non ultimo il sorriso. Ora però è lei che risplende di luce propria.
Prima della celebrazione della messa prepara il locale; procura i legnetti da mettere nel braciere e al momento opportuno, durante la funzione, li brucia provocando un piccolo falò. La fiamma si innalza formando una lingua di fuoco che ben presto si assopisce fino a spegnersi. Ella ha un modo di muoversi essenziale e i suoi atti sono assoluti: anche il prostrarsi rende testimonianza di questo.
Ha uno sguardo quasi rapito, un corpo che si abbandona, pronto a ricevere.
* Considerazioni conclusive
Quando siamo andati via dall’eremo, io ho sentito che quel luogo lo avrei portato con me. Ora vorrei poter trasmettere anche agli altri un po’ di quella levità d’animo che ho potuto vivere in prima persona. Desidero che il tesoro racchiuso in questa esperienza porti il suo frutto.
Questo viaggio mi ha dato coraggio e speranza: l’energia giusta per poter affrontare la vita quotidiana con partecipazione e spirito positivo.
Ringrazio Padre Luciano e Jiso per l’organizzazione del viaggio e per la cura e l’attenzione ai partecipanti e all’atmosfera. Durante il pellegrinaggio mi sono resa conto di quanto può essere difficile condurre un gruppo di ventisei persone e di quante dinamiche relazionali si debbano tenere sotto controllo. Nel complesso, nonostante il gruppo fosse decisamente eterogeneo, ho avuto l’impressione che si sia creata una discreta amalgama: il desiderio comune di armonia, l’attenzione ai bisogni degli altri, lo spirito positivo nell’affrontare le difficoltà, la curiosità di conoscerci più a fondo e di condividere le impressioni delle esperienze vissute insieme, ecco, tutto questo ci ha permesso di capire quanto sia importante il valore delle differenze per la crescita personale, ci ha dato l’opportunità di affinare le nostre capacità di adattamento, la nostra flessibilità e di creare più unione fra noi.
La vita di gruppo mette alla prova anche in un altro senso. Quando si crea coesione c’è il pericolo che il singolo perda la sua individualità: non bisogna mai perdere di vista l’importanza della comunicazione con se stessi.
Noi siamo l’ultima risposta.
Dentro di noi deve avvenire il cambiamento di prospettiva.
Ringrazio anche i miei compagni di viaggio per aver condiviso sia le difficoltà che i momenti di gioia e di serenità.
Ripenso a tutti con piacere.
Clara
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Gentile Clara
ho avuto modo…(per caso? non è un caso…)di leggere il bellissimo resoconto della visita all’eremo in giappone.
conosco il giappone e desidero, dopo tanti anni, tornarci ma cercando proprio luoghi dello spirito.
se possibile vorrei maggiori informazioni sul viaggio che avete fatto, o se ve ne sono altri in programma, io abito a Roma…e anche sui contatti da prendere eventualmente per andare in quell’Eremo di cui parla nel suo diario di viaggio.
grazie mille.B