Ad oggi, quei giovani che vengono in chiesa sono un numero ridotto al confronto dei giovani che popolano le università e le movide del sabato sera; tuttavia sono una porzione piuttosto consistente e soprattutto carica di senso futuro. Il ministero liturgico che svolgo mi permette di incontrare decine di giovani che sostano in chiesa per una preghiera. Notando la presenza di un sacerdote disponibile all’ascolto, molti si accostano per un saluto che diviene subito un dialogo confidenziale. Rievocando le decine, anzi le centinaia di giovani incontrati in questi ultimi anni, mi pare di poter cogliere che cosa li conduce a sostare in una chiesa deserta e, in questo periodo invernale, anche fredda per il mancato riscaldamento dovuto al risparmio energetico. Il silenzio e il freddo della chiesa vuota sembrano piuttosto accordarsi con quanto hanno in cuore. La centralissima chiesa in Piazza San Babila, Milano, è una di queste mete silenziose e fredde, frequentata da vari giovani delle vicine università.
I giovani, quelli che ad oggi narrano il loro cuore al sacerdote, sono diversi da quelli delle proteste sociali e delle rivendicazioni scolastiche degli anni passati. Il vuoto che ad oggi attira i giovani a sostare in chiese deserte è il vuoto che sperimentano dentro se stessi. Questo è il vuoto che si spalanca tra i sogni e gli ideali che il giovane abbozza nella mente e nel cuore e la sua inabilità a realizzarli nella vita. Il giovane si sente inadeguato a se stesso.
Mi chiedo da dove questo senso di inadeguatezza e mi convinco che la radice del fenomeno sta nella cultura preponderante nel periodo storico in cui gli attuali giovani sono cresciuti. Fu la cultura dell’onnipotenza del progresso umano, che da sempre detesta il limite come negatività, ostacolo, sconfitta degli incapaci. Già si poteva intravedere la minaccia del surriscaldamento causato dalla dittatura umana sulla natura, ma si fingeva di non vedere. Tutto doveva essere perfetto. Ogni imperfezione era una colpa da scaricare sui più deboli. Ogni limite personale era un’onta. Anche i cosiddetti più deboli avevano i loro modi per sopravvivere sotto l’egida di questa boriosa cultura degli onnipotenti. Basta un po’ di furbizia, per esempio addebitare, come principio indiscusso, ogni incidente sul lavoro solo alla responsabilità dell’azienda, come si potessero dare la sicurezza e l’immunità senza l’attenzione responsabile di ogni singolo lavoratore. Basta fare la vittima. Fomentando questo, i sindacati possono aver favorito altri incidenti. Sembra che tutti siano d’accordo, da una parte e dall’altra, che la responsabilità non debba mai essere personale. Piuttosto la responsabilità generale di tutti, quindi di nessuno, ma che non inquieti la propria coscienza personale.
L’offuscamento della responsabilità personale sparge in giro l’aria dell’ipocrisia. Prima di mettermi a scrivere queste righe ho ascoltato la notizia dell’annegamento di decine di immigrati nel mare di Crotone. Tutti all’unisono, giornalisti e politici, ad addebitare ancora una volta il disastro agli scafisti criminali, contro i quali bisogna dichiarare guerra per risolvere il problema. Il linguaggio usato farebbe pensare che gli scafisti abbiano costretto con la forza a far salire quella povera gente controvoglia sul loro barcone. Invece sappiamo che quella povera gente ha attraversato il deserto, ha subito la devastante prigionia in Libia, ha devoluto tutta la misera ricchezza che aveva attendendo finalmente l’opportunità dell’imbarco. Perché si vuole legare il problema dell’immigrazione illegale solo al crimine degli scafisti? Perché non si vede oltre? Ma oggi l’aria tira così!
I giovani che ad oggi sostano a pregare nelle chiese fredde e deserte sono insofferenti dell’ipocrisia che circola nell’aria. Forse scelgono le chiese fredde e deserte perché in quelle surriscaldate forse anche lì quell’aria potrebbe essersi infiltrata. I crimini di cui la chiesa deve chiedere perdono, l’inquisizione e altro, conseguono da quell’aria infiltratasi a poco a poco da sembrare aria santa.
Al giovane che viene a confidare a me sacerdote la paura che sente addosso per l’inadeguatezza verso se stesso, dopo l’ascolto porgo l’invito ad osservare il gesto che ha compiuto venendo a dire le sue cose più riservate a un anziano sacerdote sconosciuto. Del resto, anche l’anziano sacerdote era lì nella chiesa fredda e deserta ad attendere. Assieme ci meravigliamo per l’atto contro corrente compiuto e lo ammiriamo assieme. Il giovane comincia a trovare in se stesso la scintilla del calore. E’ il primo passo per il risveglio della coscienza personale, la lampada che guida passo dopo passo a compiere il cammino. Con il bel risultato che uno scopre di esserci, di essere lui a vivere la sua vita, e non un trascinato dietro tutti dicono, tutti fanno. Sì, sono io!
Per evitare che l’aria dell’ipocrisia si infiltri anche in momenti così veri, occorre essere coscienti che dopo il primo passo giunge il secondo e poi il terzo, e mai si fanno due passi con un solo biglietto.
p. Luciano
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