Dopo varie sollecitazioni, sento il dovere di esternare il mio pensiero su aborto ed eutanasia. Comincio da una premessa: per me l’unica “morale” che può così chiamarsi è quella universale, radicata nell’imperativo morale che l’uomo sperimenta dentro di sé, e non dall’appartenenza religiosa. Ciò che è specifico di una religione, è prescrizione religiosa, ma non la morale. Quindi rifiuto ogni dicitura quale morale cattolica o buddista. Qualcuno può pensare che ciò sia solo un giro di parole, perché io sono cattolico e prete. Ma il mio essere cattolico e prete non è affatto il mio punto di partenza o il mio criterio di riferimento; è semplicemente la modalità in cui si esprime in me il mio essere vivente. Parlando di morale, per me l’unico ambito è quello di essere vivente umano, nientemeno come chi non è cattolico né prete.
L’aborto e l’eutanasia sono avvenimenti e comportamenti dell’ambito della vita. Per riconoscere l’etica da seguire, sto davanti alla vita e mi lascio interrogare. La vita è grande: quindi ascolto cosa dicono gli altri, anche loro come fenomeni della vita, ma è dalla mia coscienza che, quando tutto tace, mi è indicata la via. So che la mia coscienza ha un fondo profondo: quindi devo continuare ad interrogarmi e ad ascoltare.
L’aborto è la soppressione della vita che si sta plasmando il suo corpo in cui essere se stessa, essere la vita che vive. Interrogo la vita dentro di me e constato che la vita mi è tutta data; la mia libertà non è l’origine di me, ma è una funzione che proviene dall’aver ricevuto la vita mentre né io e tanto meno la mia libertà erano. La vita tutta non mi è possesso; non è condizionata dal mio giudizio. So che se accade un disordine per il troppo proliferare della vita, troppe nascite, c’è stato un uso disordinato dell’attività sessuale, manifestazione della vitalità della vita, lega le differenze, integra l’aspetto maschile e femminile, presiede alla moltiplicazione della vita. Funzioni della sessualità che la vita stessa tiene inseparabili, a meno che qualcuno vi eserciti artifici. Nessuno è proprietario della sua sessualità: l’ha tutta ricevuta. La virtù della vita è la naturalezza, e non l’artificio.
Conosco non pochi ragazzi e giovani nati con disfunzioni mentali o fisiche. Dove sono amati, la loro presenza è umanizzazione della società, in un dare e ricevere, spesso con la sorpresa che chi è, a prima vista, il sano riceve più di ciò che dà . Immaginiamoci una società di perfetti, di 99 giusti! Non portano gioia. Una società che non accoglie chi non ha il corpo perfetto è lei imperfetta. Ricordo un giovane di Tribiano, di nome Davide, con disfunzione plurima. E’ uno degli amici che a me e a tante persone dà gioia, quella pura. E anche lui ridonda di gioia. Penso a quei giovani, down come si dice usando una lingua straniera per non profanarci con il nostro linguaggio quotidiano, che odono gridare il diritto di abortire quando sta per nascere uno come loro. Capiscono abbastanza per sentirsi esclusi. Mercoledì uno di loro, lieve disturbo mentale, mi confidò che vuole suicidarsi, perché a scuola lo chiamano mongolo. E’ stato questo incontro che mi ha dato il coraggio di stendere queste riflessioni.
Riconosco la morte come parte essenziale della vita. Non accetto quella lugubre interpretazione diffusa nel mondo cristiano, secondo cui la morte è dovuta a una colpa. Non riesco a immaginarmi un mondo veramente umano senza la morte. Gesù la chiamò: gloria. Quando giunge quel momento il malato va aiutato a morire con dignità. Credo morale dargli una mano a interrompere la sofferenza che riduce la sua dignità, conoscendo direttamente o indirettamente il suo stato d’animo. Credo anche sia morale intervenire affinché la malattia non si strascichi nel tempo. Comunque, quando una persona è giunta sull’altare dell’offerta della vita, si deve compiere la liturgia dell’offerta. Dignitosa la morte in casa, fra i famigliari e amici, quasi una liturgia di ringraziamento.
Non si aspetta che una mela cominci a marcire per coglierla.
Non accetto nemmeno quel accanirsi di certi pronunciamenti di chiesa sulla vita, facendone un simulacro o un tabù. Credo che è bello offrire la vita, come tanti miei confratelli che, disobbedendo a tutti gli allerta inviati anche dal Ministero degli Esteri, hanno scelto di morire con la gente che muore, dopo aver lottato fino i fondo affinché la gente possa vivere. La vita rinchiusa nell’arco degli anni trascorsi su questa terra è un’onda del mare della vita eterna.
p. Luciano Mazzocchi
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Quanto detto sopra è la visione di me, vivente umano, circa l’aborto e l’eutanasia dal punto di vista morale, ossia di fronte all’imperativo morale che sento promanare dalla vita. Però la religione non è la morale; la religione è l’uomo alla cui natura appartiene tanto la morale come il peccato contro la morale. Anzi, la religione c’è perché c’è il peccato. Gesù, a chi lo criticava perché mangiava e beveva coi peccatori, rispose che egli era venuto proprio per i peccatori. Non per convertirli alla morale; ma guidarli a risorgere oltre alla morale e alla non morale, ossia alla novità di vita che è l’amore. Gesù giunse ad affermare che un sol peccatore che si converte porta più gioia in cielo che 99 giusti che non hanno bisogno di penitenza. Se non ci fosse il peccato, l’uomo ci perderebbe perché ci sarebbe meno di gioia, non essendoci l’avventura della conversione. Come prete sono sempre a tu per tu con questa avventura dell’uomo che si converte. La mia preghiera è che la chiesa sia per l’uomo l’ambiente della conversione alla novità di vita che è la via dell’amore, e non una stazione di controllo della morale.
p.Luciano