La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il Sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono a vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi.» Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
* il Pensiero Divino si fa Carne: il Respiro
Quella domenica sera, la sera della paura, Gesù apparve ai discepoli rintanati in una stanza sbarrata e alitò su di loro l’alito della vita e della speranza. «E i discepoli gioirono a vedere il Signore». Il respiro è il principio fisico della vita; la risurrezione è il principio religioso della vita. Respiro e risurrezione, rispettivamente nel loro ambito, dicono l’identico cuore della vita. Questo messaggio diviene evidente, comprendendo che la vita è carità e la carità è vita. Il risorto riversò il suo respiro di carità sui discepoli prigionieri della paura, ed essi risorsero alla fiducia.
Più esaltiamo la risurrezione di Gesù come miracolo straordinario, e più perde di significato. Invece, più comprendiamo la risurrezione come il cuore della vita ordinaria e più diventa il faro che indica la direzione a cui guardare, in questa traversata del mare dell’esistenza. Per nostra grande fortuna, i testi del Vangelo che annunciano la risurrezione di Cristo e nostra sono molto scarni. Sembrano una beffa alla nostra mania di soddisfare la curiosità, alla nostra voglia di incasellare tutto negli appositi schemi del sapere già. Il testo biblico, che accogliamo come ispirato e che quindi riconosciamo voluto così da Dio, già nella sua stessa struttura è un insegnamento. Per pagine e pagine ci narra molte faccende che noi reputiamo marginali per la ricerca della verità, quale la storia del popolo d’Israele. Giunto al messaggio della risurrezione, quella di Gesù e la nostra, messaggio che è la chiave e la meta di tutte le profezie, proprio qui il testo biblico si fa lacunoso, impreciso, monco. Ci assale perfino il dubbio se in quella forma così povera il testo possa dirsi ispirato. Così deve aver pensato chi ha aggiunto al Vangelo di Marco la pericope finale, assente nel testo originale, in cui si rende almeno un piccolo tributo alla risurrezione di Gesù. Il Vangelo secondo Marco, il più antico, terminava originalmente affermando che le pie donne, andate al sepolcro, trovarono la pietra d’ingresso ribaltata e la tomba vuota. Inoltre che due angeli annunziarono loro che il Gesù che cercavano era risorto e che dovevano annunciare ciò agli apostoli. Ma «esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura» (Mc 16,8). Poche pagine in tutto, per di più discordanti fra loro. Il Vangelo secondo Giovanni, il più tardivo, è anche quello che narra più dettagliatamente alcune esperienze degli apostoli riguardo la risurrezione di Gesù. Ci narra l’incontro del risorto con i dieci apostoli, assenti soltanto Giuda che si era suicidato e Tommaso l’incredulo. Il racconto è limpido, bello, caldo. «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il Sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”». Perché solo il più tardivo dei vangeli ci narra questo episodio così confortante per la nostra fede? Ma. Dopo tutto, questa genuinità delle testimonianze evangeliche sulla risurrezione è per noi una fortuna, perché ci mettono sulla strada giusta per entrare nel significato vero della risurrezione. Ci indicano che la direzione verso cui dobbiamo guardare non è il miracolo, come un fatto storico sorprendente, che qualcuno dotato di macchina fotografica avrebbe potuto anche fotografare. Ma è alla legge più profonda insita nella realtà che dobbiamo bussare per averne la risposta giusta. Non dobbiamo guardare incantati qualcosa fuori di noi, ma nell’intimo di noi stessi, là dove sono radicate le domande più insistenti sul senso del nostro esistere ed esistere così. Nessuno vide il miracolo della risurrezione, perché non è un miracolo; piuttosto fu che gli apostoli e le pie donne fecero esperienza della risurrezione di Cristo, e registrarono quella profonda esperienza ciascuno sondando il mistero di esistere dentro di sé: quindi l’hanno testimoniato con riferimenti personali, discordanti l’uno dall’altro. L’esperienza personale di ciascuno divenne comunitaria, grazie al legame della carità. Come tante scintille insieme accendono il grande fuoco.
La sfida per la chiesa cristiana è sempre stata qui: se la sua posizione nella storia della salvezza del mondo sia straordinaria, oppure ordinaria. Se diventare cristiano sia qualcosa in più, oppure sia semplicemente l’aderire in modo intimo a ciò che ci è dato di essere per natura e vocazione. Se la testimonianza del cristiano debba rivestirsi di aspetti miracolistici, oppure se debba conservare la naturalezza delle funzioni ordinarie. In altre parole, se il cristiano debba cambiare stile di discorso quando parla delle cose della vita quotidiana e quando parla di Dio. Se debba ridondare di parole e parole sulla risurrezione, come appunto quando uno narra un miracolo, oppure se debba piuttosto significarla nella semplicità quotidiana. Molti errori storici della chiesa, quali l’inquisizione, fuoriuscirono dal suo ergersi sopra la natura; e lo fece nel nome di Cristo. Si è parlato di sopranatura, nel senso di superiorità verso la natura. Si è detto che la grazia è soprannaturale, come se nella natura la grazia non fosse a casa sua. Si è squalificata la creazione, opera divina che è alla base di tutto ciò che esiste, per dare risalto alla redenzione compiuta da Cristo, della cui opera la chiesa si ritiene custode. Ma la redenzione altro non è che il ritorno al Padre dell’origine: squalificando l’origine, si squalifica anche il ritorno a essa. La risurrezione è la funzione santa della creazione e della redenzione: unisce e riconcilia le due opere di Dio. Cristo non ci distacca dalla creazione e il battesimo che ha comandato è appunto l’immersione nell’acqua, la linfa della natura, e nello Spirito dell’amore, la linfa della vita divina che è relazione trinitaria. La risurrezione non è esaltazione che distacca, ma esperienza di fede che nuovamente immerge nel cuore dell’esistenza. La risurrezione è la via maestra dell’umiltà pregna di fiducia. Infatti gli apostoli credettero soltanto quando la presunzione che li aveva dominati si fu frantumata, la sera del tradimento.
La fede nella risurrezione entra nel cuore umano attraversando gli stati d’animo naturali che formano la psicologia umana. Gli apostoli, la notte della passione, abbandonarono il maestro e fuggirono. Fuggirono via, ma pur fuggendo, si fermarono in una casa sicura alla periferia di Gerusalemme, in attesa di non so che. Fuggirono, ma non riuscivano a fuggire del tutto, come se un legame impedisse loro di dimenticare il volto del maestro. L’uomo, lungo la via della negazione di Dio, s’accorge che non riesce a dimenticare Dio. Così proprio il suo voltafaccia a Dio diventa il sentiero tortuoso per incontrarlo. Anche questo stato d’animo è alito della risurrezione. La risurrezione è una divina potenza che accompagna l’uomo sempre e non permette che il male operato dall’uomo determini l’uomo nel male. «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo» (Lc 6,37-38). La risurrezione è questa misura pigiata, scossa e traboccante che è versata nel grembo della realtà. La risurrezione è l’opera della grazia che sempre vince sull’opera di resistenza alla grazia. L’uomo non è determinato dai suoi misfatti. L’uomo, per una forza intima alla sua natura, sempre risorge. Nella cultura orientale, come anche in quella occidentale, si parla della legge della reincarnazione, per cui ciò che, al termine dell’esistenza terrena, è ancora imperfetto ricade nel ciclo della rinascita. Invece, ciò che raggiunge la perfezione è illuminato e liberato dal riciclaggio delle rinascite. Praticamente ciò che l’uomo ha, ciò si reincarna; ma ciò che è, questo risorge, vive eternamente. Il Vangelo annuncia che la forza che anima questa funzione è la carità, e non la perfezione compresa nei termini di arrivo alla stadio di illuminata consapevolezza. E la carità gioca tante e tante sorprese! Così la Maddalena, la prostituta appena convertita al Vangelo, è scelta come la prima grande annunciatrice della risurrezione di Cristo.
Così, stringendomi alla fede della risurrezione, io posso guardare l’ingiustizia e il dolore del mondo rimanendo saldo nella convinzione che nulla va perduto. Ugualmente posso accogliere i benefici del progresso sociale e tecnico che la vita dona a me, nato e cresciuto nell’era della modernità, senza cadere nella visione banale di considerare me fortunato a scapito degli sfortunati venuti al mondo in epoche remote. La visione marxista, così avvincente per le sue promesse di comunione dei beni e di eguaglianza fraterna da raggiungersi ora attraverso la rivoluzione, resta tuttavia insoddisfacente alla considerazione che per le generazioni proletarie venute prima non c’è stata salvezza, ma solo sfruttamento. La fede nella risurrezione tiene aperta in me l’attesa anche dell’ultimo. So che fisicamente le molecole che compongono il corpo di un bambino morto di fame ritorneranno a vivere nella terra e negli alberi. La legge fisica già esprime un richiamo alla risurrezione. Il Vangelo mi annuncia quanto mi era rimasto celato e che rendeva la mia attesa umana insoddisfatta. Mi testimonia che la persona di Gesù è risorta, e così tutte le persone risorgono. Quanto la persona umana di un bambino affamato ha desiderato ardentemente, ossia di crescere e portare a maturazione se stesso, non va perduto, risorge. La risurrezione è la fede che la persona è valore eterno e quindi è salvato. Però nella carità, ossia sciogliendosi nello Spirito di Dio, dove tutto viene custodito mentre tutto si dona. «Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”».
p.Luciano
* Pace con le Ferite Aperte
La pentecoste è festa cristiana per eccellenza e, nello stesso tempo, fra le feste cristiane, è quella che forse più di ogni altra rivela il senso universale della festività. Infatti quale festa è più vera e più universalmente riconosciuta di quella che scioglie i nodi della tensione, della paura, dell’angoscia? E pentecoste è proprio la festa della pace che penetra anche attraverso le mura e le porte chiuse dal timore, che passa attraverso le chiusure e annulla le separazioni, è la festa che rivela la pace al fondo della sofferenza.
Rivediamo l’evento come è descritto dal Vangelo. Gesù augura la pace e nello stesso tempo mostra le mani e il costato. I suoi discepoli lo riconoscono dalle ferite. Il risorto non è un puro spirito che aleggia, etereo e inconsistente, ma una creatura nuova che annuncia la pace proprio mentre mostra i segni delle ferite ancora aperte. Gesù augura la pace mostrando le mani e il costato: non solo per farsi riconoscere, ma anche per far vedere i segni delle ferite che porta. Pace con le ferite aperte: è la via della libertà che passa attraverso il dolore. I discepoli lo riconoscono dalle ferite: non riconoscono un volto o una fisionomia, riconoscono le ferite. Nessuno di loro stupisce e dice: “Come mai se è risorto, se ha vinto, porta ancora i segni delle ferite?” Anzi, Tommaso, di cui a volte compatiamo l’incredulità ma che è anche colui che non cede alle facili suggestioni, proprio in quelle piaghe soltanto trova la conferma che non c’è trucco. «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore». Illuso chi crede che la pace consista nell’evitare il dolore: beato chi riconosce che la pace procede dalle ferite. «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”».Il soffio, lo spirito santo, quell’alito di vita che trasmette la vita nuova, che penetra i nodi e li scioglie, esce dalla ferita, entra dalla ferita. Chi non sente la ferita, non riconosce la natura della pace. Le ferite delle mani, dei piedi, del costato di Gesù riassumono il senso dell’antica ferita e di tutte le ferite del mondo: ferita del vivere e morire, accesso alla pace di vivere e morire: la porta del dolore è porta della pace. Non perché ogni dolore, ogni ferita sia, in sé, segno di pace: ma perché il dolore è nel mondo a indicare il cammino verso l’altrove, verso la pace che nulla incrina.
Il cuore di pace, che si può trasmettere solo se si ha, che si ha solo se lo si trasmette, è il cuore della ferita aperta. Non è una dottrina, non è una norma di comportamento, non è un insegnamento sulla natura della realtà, non è un’esperienza particolare. È il cuore stesso della vita che batte in chi sente la vita battere nel suo cuore e riconosce nel suo battito il battito di tutta la vita: un pulsare, come della ferita che va a guarire: la pace della ferita.
Jiso
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