secondo la liturgia Gv 20,19-31
Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò:«Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Ed egli disse loro: «Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
* Credendo di non credere
L’ascolto delle parole del maestro aveva suscitato molto entusiasmo nei due discepoli; insieme con i dodici apostoli, le pie donne e molti altri avevano riposto la loro fiducia in quell’uomo forte e buono. Ma ecco il giorno della grande delusione: il maestro forte si lascia condannare come un debole, senza reagire; il maestro buono è abbandonato anche dai suoi apostoli. Perché seguire un messia che si lascia crocifiggere? Perché far parte di un gruppo che tradisce il suo maestro? Offesi nella loro aspettativa più intima, era scattato in loro il gusto del disfattismo: si misero a demolire tutti i segni di speranza che comunque restavano. Decisero di tagliare i ponti con quanto finora era stato fra loro e Gesù e gli apostoli; e fecero ritorno al loro paese, Emmaus. Si misero sul cammino del ritorno proprio quando le pie donne erano venute ad informare di aver trovato la tomba vuota e un angelo aveva annunciato che il Signore è risorto. Forse fu proprio quell’annuncio a spingerli definitivamente alla ritirata: quando scatta il disfattismo si preferisce vedere tutto nero e anche un raggio di luce dà fastidio. Probabilmente se non fosse germogliata nessuna speranza e tutto fosse rimasto nero, i due sarebbero rimasti a Gerusalemme con gli altri discepoli a ripetersi l’un l’altro: «Speravamo che fosse lui a liberare Israele!». Rifiutarono quindi di credere alla piccola luce che andava accendendosi e, prendendone le distanze, si misero in viaggio per far ritorno a casa. Credere a una piccola luce che si accende è difficile! L’uomo preferisce persistere nelle tenebre.
Lungo la strada della fuga incontrarono Cristo e con lui conversarono, «ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Erano stati discepoli di Cristo, ma non fino in fondo, per cui non lo riconobbero sotto la veste di quel viandante che si era aggiunto a loro, sembrava, per caso. Quel viandante non aveva niente a che fare con le loro idee su Cristo. Avevano seguito Cristo misurandolo secondo i loro criteri, per cui non vedevano più in là della loro idea di Cristo. Finalmente lo riconobbero quando, sedutisi a tavola, egli benedisse e spezzò il pane. Ma, come lo riconobbero, sparì dai loro occhi. Trovare Cristo corrisponde sempre a non vederlo più, perché soltanto abbandonando le proprie idee lo si incontra. Lo si incontra ed, ecco, era quella persona che camminava con noi!
I due discepoli, lasciate le discussioni religiose e ritornati alla vita di ogni giorno sedendosi a tavola per la cena, videro per un attimo il volto di Cristo risorto. Poi, quando non lo videro più, entrarono nella vera fede che non è più condizionata dal vedere. «E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme»: non vedevano più, ma in loro si era risvegliata la fede, per cui correvano senza indugio a testimoniare ad altri il Vangelo della risurrezione. Quando, arrivati a Gerusalemme, ebbero raccontato tutto agli apostoli, si sentirono rispondere: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone». Quindi la testimonianza dei due non era più necessaria. Ma questo non importa e non cambia nulla, perché la testimonianza non scaturisce dal bisogno dell’altro, ma dalla propria convinzione. Un giorno, sulla riva del lago, il Cristo risorto disse a Pietro che da vecchio lo avrebbe seguito sulla croce, come il suo maestro. Allora Pietro chiese che sarebbe stato di Giovanni. E Gesù: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi» (Gv 21,22). Non si segue Cristo confrontandosi con gli altri o per annunciarlo agli altri. Lo si segue e basta. Così lo si annuncia. I fiori, visti o non visti, apprezzati o no, spandono il loro profumo. Infatti sono fiori! È Pasqua!
p.Luciano
* Lo stupore di ciò che si sa già
LUna della cose che fin da ragazzo ha costituito per me un interrogativo, riguardo alla narrazione evangelica, che le spiegazioni catechistiche e le omelie domenicali non hanno risolto in risposta, è il motivo per cui gli apostoli e i discepoli di Gesù non lo riconoscono immediatamente al suo apparire risorto, pur se sono passati solo pochi giorni dalla sua morte. Eppure è detto chiaramente dalla dottrina che il Gesù risorto è lo stesso Gesù di Nazaret che ha percorso le strade della Palestina e che è stato crocifisso, e il Vangelo è esplicito nell’affermare che il corpo con cui si presenta risorto è il suo corpo, non un corpo etereo. Nel brano immediatamente successivo a quello che abbiamo appena letto, Gesù esclama: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». (Lc 24,39) Ho a lungo pensato che questa incongruenza (i discepoli conoscono Gesù da anni e non ne riconoscono il volto visto fino a tre giorni prima) dovrebbe costituire un motivo di riflessione imprescindibile per un cristiano: e tuttora ne sono convinto, ma non penso più che da questa riflessione debba scaturire una risposta obbiettivamente definita, una risposta da catechismo, per intenderci. Anzi, penso che questo sia un vero e proprio koan del Vangelo, e che come ogni koan sia snaturato da qualsiasi risposta convenzionale, che mette tutti d’accordo con una definizione standard.
L’atteggiamento che lo Zen indica e propone può essere di grande aiuto per affrontare questioni del genere: nel mettersi di fronte a un koan, che è un frammento del mistero della vita posto in termini di quesito, nessun fedele Zen pensa di poter risolvere il problema con una risposta che qualcun altro ha già dato, fosse pure Budda stesso. Per questo si sforza di trovare la propria risposta, che sia riconosciuta valida non solo da lui stesso ma anche dal maestro, da chi gli ha proposto quella domanda. Poi, mentre si sforza, col passare del tempo, si rende conto che quel quesito non è un problema capzioso, postogli da un maestro sadico, ma è il quesito della vita, che la vita pone a ogni vivente, cristallizzato in forma di parole, di dialogo, di domanda apparentemente assurda. Allora si rende conto che non c’è una risposta soddisfacente, che possa mettere tutti d’accordo, logica, inequivocabile, in cui credere unanimemente: e nello stesso tempo la risposta c’è, oltre ogni dubbio, non vaga, non indeterminata, non aleatoria. È la risposta che determina l’orientamento con cui vivere la vita: fatta quindi di modo di vivere, di rapporto con la propria vita, di percorso quotidiano, più e prima che di credenze. Per questo il koan si risolve non in una risposta standard, ma nella risposta individuale, fatta anche di parole che però devono essere lo specchio del modo di affrontare la vita, del modo di camminare sulla via: il maestro che certifica la bontà della risposta non è altri che colui che vede e riconosce la rettitudine del cammino del discepolo.
Il brano di Vangelo di oggi è un koan perfetto. Proprio grazie al fatto che i discepoli non riconoscono Gesù, ci dice innanzitutto che la risurrezione è qualcosa che riguarda e coinvolge personalmente ciascuno dei fedeli. Cristo è risorto per tutti e per ciascuno, perché ciascuno possa risorgere. «Se i morti non risorgono, neppure Cristo è risorto».(1Cor 15,16) Se io non risorgo, neppure Cristo risorge. La risurrezione di Cristo comprende la mia, e la mia risurrezione comprende quella di Cristo: non sono separabili. È evidente che i discepoli non potevano riconoscere il volto di Cristo: non perché era un volto trasfigurato, ma perché non riconoscere il volto di Cristo risorto vuol dire non riconoscere la propria risurrezione. Solo a partire dalla propria esperienza della risurrezione si può comprendere la risurrezione di Cristo. I discepoli di Emmaus sapevano già tutto, in teoria: conoscevano le Scritture, la predicazione di Gesù, sapevano che aveva detto che sarebbe risorto: sapevano tutto, ma era un sapere fatto di niente. Infatti quando le cose che sapevano accaddero davvero, non le riconobbero. Finché, quando deposta ogni sapere teorico, seduti a tavola, vedono Gesù spezzare il pane, allora lo riconoscono: allora si risvegliano allo stupore di ciò che sapevano già.
È la più bella metafora della religione, che non si può né insegnare né imparare, perché si realizza aprendosi allo stupore di ciò che già si sa, alla meraviglia della verità scritta nel cuore della vita di ciascuno e di ciascuna cosa. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Aperti gli occhi, non c’è più bisogno di vedere come un oggetto di fede il volto di Cristo fino ad allora non riconosciuto: esso entra dentro, e la risurrezione si è fatta esperienza personale, inseparabile, per sempre.
Jiso